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Da "Umanità Nova" n. 42 del 15 dicembre 2002

Economia. Crisi e uso della crisi

Provare a districarsi nella babele dell'informazione economica è sempre più difficile. Da una parte i sedicenti giornalisti hanno il compito di tenere alto il morale della truppa, sostenendo la fiducia del consumatore e pronosticando favolosi sviluppi delle depresse economie occidentali. Dall'altra hanno il dovere di fornire un contributo alla rassegnazione generale, per cui la crisi è mondiale e quindi si deve salvare il salvabile accettando sacrifici e licenziamenti, in modo da garantire, autoimmolandosi, la sopravvivenza delle aziende e del sistema.

Lo sgonfiamento della bolla speculativa ha lasciato sul terreno cumuli di macerie, su cui è impossibile ricostruire qualcosa. D'altra parte, la distruzione di capitale eccedente, anche in misura massiccia, è una caratteristica costante di questo sistema e quando non si riesce ad ottenerla con altri mezzi, si utilizza la guerra.

La fase attuale di crisi e ristrutturazione è una delle più violente del secondo dopoguerra e quindi può dare origine, dopo, ad un ciclo di sviluppo lungo e duraturo, sebbene non ci sia alcuna garanzia che questo avvenga davvero. Proviamo a ragionare sugli elementi salienti che caratterizzano questa fase.

In primo luogo abbiamo assistito ad un lungo e doloroso ridimensionamento delle quotazioni azionarie, che ha portato in questi ultimi tre anni alla massiccia svalutazione del patrimonio in mano alle famiglie e modificato drasticamente l'atteggiamento verso il consumo, soprattutto quello a credito. Questo è particolarmente vero per la più "avanzata" delle economie: quella Usa. Com'è noto, le famiglie americane avevano visto raddoppiare, tra il 1995 ed il 1999, la propria disponibilità patrimoniale. La crescita della borsa aveva progressivamente abbassato la percezione del rischio e fatto decollare il credito al consumo, salito con un tasso annuo di crescita del 7% tra il '92 ed il '99 (un'impennata pari a quella di tutto il periodo 1959-1992). Il rapporto tra credito al consumo e reddito disponibile è salito, nello stesso periodo, dal 14% al 21%. Questo spiega perché l'indebitamento delle famiglie sia salito a circa il doppio di quanto fosse nel 1990. Oggi l'onere del debito (la spesa per interessi) rappresenta l'8% del reddito disponibile e quindi è comprensibile l'ansia con cui gli operatori economici attendono le cifre sui consumi natalizi, perché occorre capire fino a che punto l'incubo della recessione tocchi le corde del consumatore americano e ne modifichi i comportamenti. Nel periodo natalizio si concentra circa il 30-35% delle vendite annuali, per cui il periodo è cruciale sotto ogni punto di vista: un crollo dei consumi sarebbe l'ultima Caporetto per questo modello di capitalismo. Questo spiega perché anche nella periferica Italia assistiamo da qualche settimana ad uno sconcertante spot pubblicitario pieno di "grazie" per chi se ne va in giro con la borsa della spesa pieno di roba inutile: la crisi, la recessione, la critica "no-global" a chi ha la pancia piena preoccupano non poco i padroni del vapore e in particolare i pubblicitari, che temono il radicarsi strutturale di un "sentiment no-logo". Sarebbe la caduta dell'ultima trincea sul fronte della recessione-deflazione.

In secondo luogo c'è la caduta verticale degli investimenti aziendali. Tutto il sistema manifatturiero mondiale lavora ampiamente al di sotto delle proprie capacità produttive e non c'è alcun segnale evidente che la situazione sia destinata a cambiare nel breve termine. Tutte le aziende hanno la tendenza a liquidare le scorte esistenti e neanche l'attuale, bassissimo, livello dei tassi d'interesse le induce a ricostituirle. Qualcuno sta cominciando a chiedersi se "il dottor Greenspan abbia sbagliato la cura" (Gary Shilling, Borsa e Finanza 7.12.02), visto che i 12 tagli dei tassi decisi negli ultimi due anni, che hanno portato il tasso sui Fed Funds dal 6,50% al 1,25%, non sono riusciti a modificare la situazione, le imprese hanno ridotto del 12% gli investimenti (a fronte di un'espansione monetaria dell'8%) e la liquidità affluita sul mercato viene usata nell'acquisto di titoli di stato. D'altro canto va detto che la situazione debitoria delle imprese è ancora più preoccupante di quella delle famiglie. Nel periodo d'oro della bolla le imprese avevano usato ogni mezzo per procacciarsi risorse finanziarie. Nel triennio 1998-2000 le emissioni obbligazionarie sono triplicate (do you remember Cirio?), i collocamenti di quote azionarie sono esplosi ed è cresciuto anche, a dismisura, l'uso del credito bancario. Negli States le imprese hanno usato il credito massicciamente, portandolo dall'84 al 116% del capitale proprio. L'aspetto più inquietante della vicenda consiste nel fatto che questo credito non è stato usato per ampliare il potenziale produttivo, ma per finanziare i processi di fusione, l'acquisto di azioni proprie, il sostegno dei corsi azionari per permettere ai manager di liquidare ai massimi le proprie stock-option. Il credito pompato dalle banche è stato usato per fini eminentemente speculativi, le fusioni sono avvenute carta-contro-carta, il tutto ha funzionato egregiamente per attirare capitali da tutto il resto del mondo.

In terzo aspetto della crisi attuale è diretta conseguenza dei primi due: la crisi finanziaria che attanaglia le banche e, in modo indiretto, le assicurazioni e i fondi pensione. L'accrescimento dell'indebitamento generale e poi l'innesco della recessione hanno portato ad un generale degrado della qualità del credito: le banche hanno molto da fare nel recuperare crediti inesigibili, non concedono nuovi fidi, stanno ponendo le premesse per un bel "credit crunch". Persino le banche svizzere hanno dovuto denunciare bilanci in perdita, figuriamoci le banche americane invischiate dentro grovigli indicibili come Enron, Worldcom e così via. Il sistema di controllo si è dimostrato ampiamente inefficace, l'intrecciarsi dei conflitti d'interesse nella consulenza e nel finanziamento delle emissioni azionarie sta portando al collasso istituzioni importanti (ricordiamoci che la Arthur Andersen è in pratica stata cancellata via dal crack Enron), hanno dovuto dimettersi il Presidente della Sec Harvey Pitt, il Segretario di Stato Paul o'Neill ed il consigliere economico della Casa Bianca Lindsay. Il livello di credibilità dei bilanci (il più importante biglietto da visita di un'impresa che va in borsa) ha toccato il punto più basso. La crisi di fiducia può innescare una pericolosa spirale di avvitamento di tutto il sistema finanziario. Le aziende che meritano credito non hanno interesse ad investire, perché hanno i magazzini pieni. Le aziende che non hanno bilanci solidi devono pagare il denaro a costi proibitivi. Chi ha progetti validi, ma garanzie patrimoniali scarse, non ha modo di finanziarsi. Mentre prima si finanziava tutto, adesso non si finanzia più nulla. Si passa da un eccesso all'altro, senza passaggi intermedi.

Il quarto aspetto è quello dell'economia reale, a livello della produzione e dell'occupazione. Il ciclo di fusioni e incorporazioni precedente non poteva che sboccare nella situazione attuale: una drastica riduzione dei costi effettuata attraverso il taglio dei livelli produttivi e della forza lavoro occupata. In un mercato che non cresce, si può recuperare profitti soltanto tagliando sui costi del personale, a cominciare dai livelli più alti, fino alla chiusura di linee ed impianti considerati periferici o non strategici. La tenuta dei profitti viene perseguita attraverso i tagli all'occupazione. Questa filosofia viene applicata indifferentemente su entrambe le sponde dell'oceano, con il corollario della fine del modello "renano". La Germania, ex-locomotiva dell'Europa, dopo aver costruito i suoi successi sull'esportazione di macchinari di ottima qualità, si trova ad affrontare la più pesante delle contrazioni economiche, trascinando con sé tutta l'Europa. Ai colpi subiti per il rallentamento dell'economia mondiale, si aggiunge il deterioramento dei conti pubblici, il crollo delle entrate fiscali, il dilatarsi della spesa pubblica ben oltre i parametri che essa stessa aveva imposto agli altri paesi con il trattato di Maastricht. Persino l'arroccata Banca Centrale Europea, alla fine, ha dovuto cedere alla riduzione dei tassi (-0,50% dal 5.12.2002) nell'ultimo tentativo di fare ripartire il ciclo economico tedesco.

Si tratta di capire fino a che punto questa situazione possa durare. Le borse hanno sempre avuto un andamento ciclico e, da questo punto di vista, l'unico elemento in qualche modo nuovo è la estrema volatilità delle quotazioni, con grafici che assomigliano sempre di più ai percorsi delle montagne russe. Si può sostenere che gran parte del capitale andato distrutto era frutto di una crescita speculare avvenuta negli anni precedenti e che in fondo si tratta di una massiccia e atipica redistribuzione del reddito, con pochi beneficiari (speculatori professionisti che tra l'altro né investono né consumano a livello di massa) e molti milioni di persone illuse dal guadagno facile e duramente puniti dal capitalismo, che sono costretti a ridurre il proprio tenore di vita in modo strutturale. La parte più pesante, ovviamente, è quella che coinvolge milioni di lavoratori, travolti dall'ondata di licenziamenti e di "downsizing"aziendali.

Le aziende approfittano della congiuntura per "snellirsi" ed arrivare con dimensioni ottimali al momento della "ripresa", quando il ciclo di fallimenti avrà lasciato sul terreno solo le aziende sufficientemente solide da resistere alle intemperie, pronte a cogliere appieno le occasioni di profitto in un mercato "ripulito" di concorrenti più deboli. È la dura legge del capitalismo ad accumulazione flessibile, che ha rotto il precedente modello fondato sul compromesso sociale fordista. Si scarica zavorra e si riprende il mare, gettando sulla riva i residui del naufragio. È un modello i cui costi sociali stanno diventando sempre meno tollerabili. Il lavoro del movimento, in questa fase, è proprio quello di rendere sempre più costosa la libertà di azione del capitale, globale e locale.

Renato Strumia

 



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