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Da "Umanità Nova" n. 2 del 19 gennaio 2003

La Corea alza la posta
Bush, per il momento, non va a vedere le carte

La recente minaccia della Corea del nord di denunciare il Trattato di non proliferazione nucleare, negandosi pertanto alle ispezioni rituali dell'agenzia di controllo IAEA di Vienna, si inserisce in una partita complessa che ha per posta in palio la sopravvivenza dell'ultimo regime "totalitario" di un'era bipolare spazzata via alla fine del secolo scorso. La paziente reazione Usa alla reiterazione degli annunciati programmi di proliferazione nucleare e di costruzione di armi di distruzione di massa da parte del governo nordcoreano suona strana se si considera come il pericolo nucleare acclarato sia senza dubbio maggiore rispetto a quello supposto iracheno, mentre entrambi i paesi sono stati inseriti nella lista nera di Bush quali "rogue states" (in quell'"Axis of evil" unitamente all'Iran e allo Yemen), e quindi entrambi sono nel mirino di una possibile "pre-emptive war" unilaterale in quanto "terroristi" per definizione assiomatica di un "parlante" in una neolingua orwelliana che incute terrore al di sopra della stessa pseudo-legge del "Washington Consensus".

Se ciò non accade non è solo perché difficilmente gli Usa potrebbero reggere due grandi fronti di guerra, di cui uno a rischio nucleare, appunto, senza mettere in pericolo se stessi, gli equilibri globali e la sicurezza dei propri alleati in Estremo oriente. Proprio di questo si fa forte il leader nordocoreano Kim Jong il, il cui calcolo è di una semplicità "disarmante" (sulla pelle della propria popolazione affamata, tuttavia): da anni la Corea del nord viene additata come un regime ostile alle democrazie vincenti nel pianeta, e ciò ha creato un senso di frustrazione e di accerchiamento (dal 1955 al 1991 gli Usa hanno tenuto una forza di deterrenza nucleare in suolo sudcoreano al confine del 38deg. parallelo), accresciuto quando il panorama storico ha decretato il collasso dei suoi alleati storici, prima l'Unione sovietica e poi la Cina maoista. Mentre la riunificazione con la Corea del sud procede a rilento, i "padroni del mondo" prendono in considerazione solo due vie per tenere in conto altre forme organizzative delle nazioni: la rapina, in proprio o appaltata alle istituzioni finanziarie internazionali, Fondo monetario e World Bank in primis (ne sanno qualcosa i paesi dell'est europeo e la stessa Russia), o il terrore della guerra duratura, della militarizzazione permanente della terra, della sovradeterminazione eteronoma dei regimi nazionali secondo i gusti dell'iperpotenza globale. In tale ottica, anche senza voler considerare l'impossibile buona fede del figliolo erede di Kim ll Sung, padre fondatore della nazione nonché dittatore di prim'ordine, le riforme per alleviare l'affamamento della popolazione hanno necessità di aiuti e di capitali che non accorrono disinteressatamente verso un paese bisognoso. In qualche modo, l'attuale leadership ha espresso una volontà di mimare il modello cinese con l'instaurazione di zone di libero mercato per l'accesso di capitali stranieri a Rajin-Sanbong, Sinuiju e Kaesong, senza però l'equivalente successo delle Zone di libero scambio di Zhenzhen e Shangai, di allentare la morsa del controllo statale sui salari e sulla "libertà" dei consumi e degli investimenti privati, di cominciare a stornare risorse budgetarie dal settore militare a quello sociale, con una apprezzabile crescita annua del Pil del 3.7%, e ciò senza la "consulenza" delle agenzie internazionali (eresia che costituisce un peccato da far pagare caramente).

Da qui la mossa del ricatto nucleare nel duplice intento di sintonizzarsi con l'unico linguaggio comprensibile, la forza delle armi, per usarlo quindi come mezzo di scambio, e di possedere tecnologie spendibili nel mercato delle armi di distruzione di massa (partner in prima fila: il Pakistan, che vende tecnologia militare e compra tecnologia missilistica, forse il Sudafrica, lo Yemen, mentre il principale fornitore di tecnologie sembra essere la Cina). Del resto, gli stessi Stati Uniti sono i primi a non aver ratificato il Trattato che vieta i test nucleari (ratificato invece da Mosca), a "difendersi" con 9mila testate, a perseguire il controllo dello spazio attraverso la sua militarizzazione, a usare armi chimiche e ad uranio impoverito già vietate dalla IV Convenzione di Ginevra del 1949, e quindi si pongono di gran lunga in testa agli stati terroristi nucleari. A questo si aggiunga la destabilizzazione di un'area cruciale per gli equilibri mondiali perché orbitanti intorno al Giappone, alleato cinquantennale degli Usa, alla Cina, futura rivale per l'egemonia planetaria, e alla Russia indebolita ma non irrilevante.

La reazione prudente americana, tutta tesa ad un atterraggio morbido dell'impatto di tale uscita dal club del nucleare autocontrollato dall'agenzia apposita sopra citata, che fornisce altresì parte degli ispettori attualmente al lavoro in Iraq, si ispira ad una mediazione multilaterale (per ora escludendo l'Onu e la stessa Aiea) che mira a isolare la Corea del nord senza sprecare un dollaro per salvare milioni di vite affamate dalle politiche di sterminio del regime e dalla logica di mercato capitalista che penalizza chi non può accedervi senza il medium del denaro. Resasi poco praticabile la risposta militare, a meno che la ventilata ipotesi di slittare l'attacco a Saddam non nasconda un repentino riorientamento della coalizione internazionale contro il terrorismo (ma non è facile spostare centomila uomini di notte senza farlo vedere a nessuno), la diplomazia è al lavoro con il classico metodo del bastone e della carota: da un lato, aiuti, già concordati da Clinton nel giugno 1994 grazie alla mediazione dell'ex-presidente Carter, ma mai interamente decollati e sospesi da Bush l'anno scorso (una sorta di programma umanitario "uranium for food" - ossia congelamento del programma nucleare "indigeno", mai attuato del tutto, e aiuti esteri in alimenti e in trasferimento di tecnologie per infrastrutture civili, quali due centrali nucleari ad acqua leggera a fini di produzione di energia elettrica, ad esempio, una sola delle quali iniziata appena nell'agosto scorso - il cui tempo di verifica scade appunto nel 2003), e dall'altro (ipotetico) ricorso (futuro) al conflitto armato preceduto dalle immancabili sanzioni economiche e dal blocco dei rifornimenti di combustibile (che equivarrebbero ad una dichiarazione di guerra, per bocca della stessa leadership nordcoreana). La Corea reagisce così con l'altrettanto classico metodo del dolce-amaro: dichiarazioni rassicuranti altalenate con affermazioni bellicose.

Il va-e-vieni di politici americani dallo scorso ottobre ad oggi, unitamente a diplomatici cinesi, giapponesi e russi, indica come la situazione sia sotto controllo dal punto di vista di una realistica escalation militare e quindi nucleare, in un'area del pianeta densamente popolata. Ad oggi non esistono segnali di avventure militari (nucleari o meno) nella penisola coreana, né d'altronde risulta che ad oggi la Corea del Nord abbia effettuato test nucleari, come invece hanno fatto potenze di recente ingresso in quell'esclusivo club (India, Pakistan, Sudafrica, Israele). Non è un caso che addirittura Washington ha tenuto per un paio di settimane all'oscuro il paese, inducendo anche le altre capitali interessate a mantenere temporaneamente il segreto ai media (sino al 16 di ottobre), in relazione agli intenti dichiarati del regime nordcoreano sulla proliferazione nucleare, acquisiti da una delegazione parlamentare americana ai primi di ottobre (dal 3 al 5 u. s., otto deputati guidati dal sottosegretario di stato James Kelly che consegnò in tale occasione un ultimatum al presidente nordcoreano in merito all'acquisizione, forse dal Pakistan, di tecnologie d'alluminio rafforzato per centrali a gas al fine di produrre, non plutonio per reattori nucleari, bensì uranio impoverito, procedura nota alle forze armate statunitensi e della Nato di cui serbare gelosamente il monopolio), per consentire all'amministrazione Bush di acquisire il consenso del Congresso alle iniziative contro l'Iraq (della vicenda coreana, i deputati sono stati avvertiti prima degli altri ma solo dopo aver votato il decreto presidenziale sul ricorso alla guerra con l'Iraq), a inserire il tema nell'agenda di discussione col presidente cinese Jiang Zemin (in visita negli States il successivo 25), a non disturbare la campagna delle presidenziali in Sudcorea (fine ottobre) e delle politiche in Pakistan (l'11).

Tutt'altro stile rispetto alla pantomima in sede Onu per le supposte armi di distruzione di massa detenute dall'altro dittatore Saddam Hussein. Il dilemma per Bush è tagliente: se riesce nella penisola coreana la via diplomatica multilaterale (con o senza Onu), si delegittima la via militare per il contenzioso iracheno, mentre se fallisce, perseguire la seconda in contemporanea con la guerra al terrorismo iracheno diventa un azzardo politico e militare di conseguenze strategiche potenzialmente disastrose per gli Usa. Evitare il dilemma significa incoraggiare Mosca e Pechino a ridiventare protagonisti di una vicenda di livello planetario rafforzandone il ruolo di primo piano in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che dovrà dare il via libera contro Saddam con il loro consenso ad un prezzo prevedibilmente più alto per Bush.

Salvo Vaccaro

 


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