archivio/archivio2003/un01/unlogopiccolo

Da "Umanità Nova" n. 4 del 2 febbraio 2003

Rifondazione Comunista
La rivoluzione dolce

Sia dai suoi dirigenti che da tanti militanti di base con cui veniamo a contatto, si sente spesso affermare che non solo Rifondazione Comunista è ritenuta parte della sinistra radicale e antagonista, ma persino che è un partito parlamentare ed allo stesso tempo rivoluzionario.

Per alcune componenti interne "di minoranza", tale riferimento rimane legato ad una visione da "Che fare" di Lenin e all'immaginario sovietico del 1917, mentre all'interno è da tempo aperto un dibattito alquanto contraddittorio che coinvolge anche i Giovani Comunisti, incerti tra il mito guerrigliero di Che Guevara e la partecipazione al "movimento" dei Disobbedienti che ha dichiaratamente rotto con una certa tradizione identitaria della sinistra.

Un dibattito contraddittorio in quanto, partendo da analisi anticapitalistiche che richiamano quelle delle diverse scuole marxiste-leniniste, approdano a formulazioni alquanto improbabili; Carla Ravaioli (Liberazione del 4 gennaio 2003) parla di "una sorta di rivoluzione dolce, senza eventi traumatici e sovversioni improvvise" mentre Rina Gagliardi (Liberazione dell'8 dicembre 2002) allude ad una "rivoluzione radicalmente nonviolenta" come unica scelta possibile, riprendendo le tesi contenute nel recente libro di Fausto Bertinotti e Alfonso Gianni.

A sostegno di tale approccio vengono puntualmente citati brani di Marx e di Rosa Luxemburg, quasi a voler legittimare quello che comunque è avvertito come un rinnegare la storia del movimento comunista.

Il confronto tra "vecchio" e "nuovo" all'interno del partito appare però incapace di affrontare alcuni nodi fondamentali della questione della violenza rivoluzionaria così come si è posta all'interno della lotta di classe, ma anche del rapporto esistente tra violenza e potere.

Quella violenza, che Bordiga definiva lo sforzo necessario per rompere le catene, appartenente ad ogni conflitto sociale è sempre stata una scelta imposta dalla violenza legale ed armata della reazione, dello Stato e del Capitale continua infatti ad essere nella tragica realtà delle lotte e delle rivolte ad ogni latitudine, dalla Colombia alla Palestina, dall'Argentina alla Corea.

Di contro, si sottovaluta come l'esercizio sistematico della violenza appartiene ad ogni potere costituito o costituente, ad ogni Stato grande, piccolo o nascente.

D'altra parte la stessa Rifondazione Comunista, disposta a rivendicare teoricamente la scelta strategica della rivoluzione nonviolenta, in piazza non si sottrae al ricorso ai immutati servizi d'ordine tutt'altro che dolci e nonviolenti nei confronti dei cosiddetti "estremisti" o dei soliti "anarchici" assumendosi sovente il ruolo di vigilantes del movimento con atteggiamenti di sapore stalinista.

Ma l'aspetto teorico più rilevante che tale dibattito non vuole, con tutta evidenza, affrontare è quello del contesto generale in cui s'inserisce.

Infatti, parlare di rivoluzioni dolci significa ritenere che oggi sia possibile attuarne, senza doversi scontrare con i poteri dominanti e con i loro apparati; in altre parole, vuol dire utilizzare il termine "rivoluzione" per ammantare di radicalismo un progetto politico sostanzialmente riformista, all'interno di una società in cui ci sarebbero ancora spazi di lotta democratica, pacifica e graduale.

Che si tratti di un'allucinazione non sono gli anarchici a dirlo, basti citare l'economista Christian Marazzi che proprio su Liberazione (23.06.01) ha scritto che "il capitale è incapace di risolvere le sue stesse sciagure ma lo spazio per un'iniziativa riformista non c'è".

Per questo chi afferma "un altro mondo possibile" dovrebbe realisticamente prendere atto del cimitero in cui sono state da tempo sepolte le illusioni socialdemocratiche del welfare state, del garantismo, dell'estensione dei diritti, dell'indefinito sviluppo economico, delle garanzie costituzionali, della democratizzazione dei rapporti economici globali; una realtà, confermata anche da una certa crisi del pensiero definito come neo-zapatista.

Come anarchici, da sempre convinti della necessità della rivoluzione sociale e non della conquista del potere politico, non abbiamo da aggiungere molto a quanto scritto da Malatesta quando, pur "aborrendo la violenza per sentimento e per principio", affermava: "È curioso osservare come i terroristi e i tolstoisti, appunto perché sono gli uni e gli altri dei mistici, arrivano a conseguenze pratiche pressoché uguali. Quelli non esiterebbero a distruggere mezza umanità pur di far trionfare l'idea: questi lascerebbero che tutta l'umanità restasse sotto il peso delle più grandi sofferenze piuttosto che violare un principio".

KAS

 

 

 


Contenuti  UNa storia  in edicola  archivio  comunicati  a-links


Redazione fat@inrete.it  Web uenne@ecn.org  Amministrazione  t.antonelli@tin.it