![]() Da "Umanità Nova" n. 5 del 9 febbraio 2003 Alpini in Afganistan. Esercito di occupazioneE qui comincia davvero l'avventura. Quella delle nostre truppe, quella dei nostri alpini, mandati nel lontano Afganistan nella "più pericolosa missione militare dalla fine della seconda guerra mondiale". E te pareva? Siamo in guerra, si sa, siamo in guerra già da parecchi anni, una guerra a corrente alternata, a basse ed alte frequenze, una guerra più o meno guerreggiata, più o meno combattuta. Ma in guerra: a fianco dei signori del pianeta, noi, uggiolanti cagnolini con la lingua penzoloni, di destra o di sinistra, col baffetto nervoso o con il rialzo nelle scarpe, utili servi ai quali ogni tanto si butta l'osso, un po' di petrolio, un po' di affari nei Balcani, un po' di considerazione internazionale. Merce all'ingrosso che non si nega a nessuno. Con la carta costituzionale ben disposta a fianco del water, con l'italica vocazione alla commedia dell'arte, magistralmente recitata in aule parlamentari che fanno concorrenza all'Ambra Jovinelli, fra le indecenti comparsate televisive di esperti, tanto seri quanto intercambiabili a comando, ancora una volta l'esercito della repubblica "nata dalla resistenza" viene mandato oltre i patrii confini, armato fino ai denti, per portare la pace. E così il primo contingente dei mille alpini della Brigata Taurinense, alla presenza dell'impettito ministro della guerra Martino, commosso come di dovere, ha salutato mammà ed è partito. Soldati e soldatesse hanno preso il loro bravo aereo, e armati di libro e moschetto sono atterrati a Bagram, per dare il cambio ai parà inglesi che dovranno essere impiegati contro il Feroce Saladino. Fuori uno, sotto l'altro! Tutti al guinzaglio dell'U.S Army, a dare la caccia ai talebani nell'infinita e benemerita operazione Enduring freedom. È l'ennesima missione umanitaria di quelle truppe di dissuasione che una volta si chiamavano "esercito di occupazione", una missione fatta di "pasti caldi da distribuire alla popolazione stremata", una missione per tenere a bada genti refrattarie alla pax americana, una missione per garantire la sicurezza dei futuri oleodotti delle sette sorelle. E ai nostri bravi alpini e alla loro pittoresca piuma sul cappello, nessuno, fra chi li manda a combattere, vorrà poi negare il dovuto riconoscimento: una patacca da appuntare sul petto, un aumento di stipendio, un'apparizione fugace in un qualche tolcsciò, un sacco di plastica nera...
È sconcertante osservare il fragoroso silenzio dei pacifisti da cortile. Fieramente impegnati a far sentire la loro voce contro la guerra in Iraq prossima ventura, salutano nel più totale disinteresse la partenza di un contingente armato in un paese che non si è mai sognato di dichiararci guerra. Evidentemente dal Vaticano non è ancora arrivato il segnale e pertanto opportunismi d'accatto e calcoli meschini consigliano loro di rifarsi al vecchio adagio che recita che un bel tacer non fu mai scritto! Ma pronti, una volta tornati al governo, a riassumere il ruolo di cani da guardia degli interessi imperialistici che tanto devono invidiare, oggi, alle eccitate falangi del cavaliere mascarato. Ancora una volta ci troviamo a dover ricordare che non ci sono guerre giuste, non ci sono missioni umanitarie, bombe intelligenti, azioni preventive, operazioni di polizia internazionale, e tutte quelle balle inventate da strateghi e politologi clonati da mediocri creativi. Ci sono solo morti, ingiustizie, drammi e sofferenze, ci sono famiglie e affetti annientati, ci sono dolori e tragedie, distruzioni di risorse e mostruosi sprechi economici, ci sono tutte le infamie che le guerre, tutte le guerre portano con sé. Tutte le guerre, dicevamo, fuorché l'unica che veramente vogliamo combattere, la guerra contro la fame e la miseria, la guerra contro gli interessi di un capitalismo di rapina, la guerra contro le strategie con le quali gli Stati ci vorrebbero governare come si "governa" una cucina. La guerra contro l'oppressione, contro lo sfruttamento e la divisione in classi, la guerra contro il Potere. E la guerra contro la rassegnazione. Massimo Ortalli
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