Da "Umanità Nova"
n. 5 del 9 febbraio 2003
Etica della violenza o violenza
dell'etica?
Frammenti di un dibattito
"Inviare aerei e soldati italiani è giusto, rende tutto
più onesto e pulito. È un problema di etica politica. Così
si fa nei paesi seri!"
(Massimo Cacciari, filosofo, Corriere della Sera,
5.11.2001)
Lettera di una pacifista al Campo Antimperialista
Carissimi (...) dicevate che i pacifisti essendo contro tutte le guerre
non sostengono la lotta dei popoli per la loro autodeterminazione; può
essere che una parte di loro abbia queste idee, mi dico pacifista e non
violenta ma non credo di essere molto ortodossa anche se credo (e sottolineo
credo, di sicurezze ne ho veramente poche) che preferisco subire che fare
violenza ma io vivo nella parte ricca del mondo e non ho mai subito violenze
tali da farmi cambiare questa idea per questo da pacifista e non violenta
di fronte a chi subisce o ha subito violenza io sto zitta e le uniche
parole che hanno un senso sono le loro e per questo da anni il lavoro
che cerco di fare non è per ma con le donne e i bambini che chiedono
la cessazione della violenza, dar loro voce quando non ce l'hanno e far
politica qui nel mio paese perché non entri in guerra contro questi
popoli è l'impegno che le persone che ho conosciuto mi hanno chiesto
di fare e che cerco con le mie forze di fare questo è essere contro
la lotta per l'autodeterminazione dei popoli?
Risposta del Campo Antimperialista
Cara compagna, sarebbe molto lungo e impegnativo risponderti seriamente.
La tua è una posizione etica rigorosa, che postula la coerenza
tra mezzi e fini.
Tuttavia la sfera dei mezzi e quella dei fini, non sempre coincidono.
Ove coincidessero non ci sarebbe bisogno della politica (la sfera dei
mezzi per raggiungere un fine).
Non coincidono perché la società nella quale viviamo non
è fondata sull'eguaglianza sociale. Se fosse così non ci
sarebbe bisogno della politica, poiché non ci sarebbe lotta antagonistica.
La lotta avverrebbe solo sul piano etico-culturale, tra opinioni e movimenti
differenti che non avrebbero una relazione antagonistica, dato che tutti,
comunque, difenderebbero una società considerata giusta. A questa
società noi diamo un nome: comunista.
Ma vi è un'altra possibile obiezione, come dire, sostanziale, ontologica.
Come si fa a dire che uno schiavo che si ribelli al proprio padrone e
sia costretto ad usare la forza (dato che l'oppressore non si convince
affatto con lo sforzo persuasivo dei ragionamenti etico-razionali) non
sia eticamente coerente?
Ammettiamo ora che davanti al dilemma dell'uso della forza lo schiavo
rinunci alla sua liberazione e decida di soccombere. Non ti pare che anche
in questo caso si cada in una situazione paradossale di incoerenza? Rinunciando
alla propria libertà a causa del carattere odioso della forza,
non sarebbe eticamente inaccettabile?
Noi pensiamo di si.
Che dobbiamo concludere?
Prima di tutto viene la libertà, anche ove questa implicasse il
sacrificio del ricorso all'uso della forza contro un altro essere umano
(il quale è in realtà dis/umano e se ne fotte dell'etica)
se la gazzella, che è erbivora, decidesse di accoppare il leone,
ne avrebbe il diritto e non per questo diventerebbe carnivora.
Non c'è un'etica universale, assoluta, valida per tutti e tutte
le epoche. Questo lo pensava Kant (imperativo categorico) e si sbagliava.
Se trovassimo il portafogli di Berlusconi non lo restituiremmo. Se trovassimo
quello di una pensionata al minimo sì. Così non mettiamo
sullo stesso piano un mercenario sionista o un marine con un bambino palestinese
che butta una molotov contro una pattuglia israeliana.
Alcune considerazioni antiautoritarie.
Il confronto tra una pacifista e alcuni antimperialisti è interessante.
Sul concetto della cosiddetta autodeterminazione dei popoli ci sarebbe
molto da discutere in riferimento all'utilizzo nazionalista che ne fanno
le fazioni politiche borghesi per mantenere il controllo sugli sfruttati,
ma la questione dell'eticità delle forme della lotta rivoluzionaria
appare come centrale nei due diversi interventi.
Gli antiautoritari, che conseguentemente si dichiarano antiviolenti,
hanno sempre posto molta attenzione alla questione della coerenza tra
mezzi e fini.
Infatti non abbiamo mai accettato la logica aprioristica secondo cui,
in politica, il fine giustifica i mezzi, ma allo stesso tempo abbiamo
sempre cercato di evitare di affrontare tale questione in modo semplicistico
o astrattamente etico; per questo anche noi ci terremmo volentieri il
borsellino di Berlusconi, pur sapendo che la giustizia sociale è
un'altra cosa.
Innanzitutto è il caso di precisare non soltanto che non vi è
un'etica assoluta, ma che l'etica non può ricalcare la legalità
o la morale dominanti, così come è necessario tenere presente
che quello che è illegale o trasgressivo non è automaticamente
definibile come rivoluzionario.
L'etica infatti quando assume una valenza dottrinaria e quindi ideologica
- sia pure anarchica - tende a trasformarsi nella negazione della ricerca
individuale e della sperimentazione collettiva.
Nelle mani del potere poi essa diviene un micidiale strumento di ricatto,
basti pensare come attraverso la teoria del fine che giustifica i mezzi
essa è sistematicamente utilizzata dai poteri dominanti: Bush se
ne appropria per legittimare lo stato di guerra globale parlando di "guerra
etica", mentre la sinistra liberal, in nome della non-violenza, condanna
e se può reprime ogni forma di opposizione non legalitaria e quindi
ogni pratica rivoluzionaria.
Gli antiautoritari più che parlare di coerenza mezzi-fini preferiscono
parlare di mezzi adeguati ai fini e quasi capovolgendo i termini di tale
assunto ritengono semmai chiedersi quanto i mezzi giustifichino i fini;
se si sbaglia strada, osservava infatti Malatesta, si finisce dove ci
porta la strada e non dove volevamo andare.
È quasi scontato che se si è contro la schiavitù
non si può che rivendicare coerentemente la violenza che ne spezza
le catene, ma il problema ben di rado si presenta in modo così
lineare; se, per esempio, prima di tutto poniamo la libertà, per
quale ragione dovremmo scandalizzarci se per ottenerla un prigioniero,
invece di evadere, fa la spia o se un Previti corrompe i giudici?
Il problema della "coerenza" quindi, appena cacciato dalla porta, ricompare
alla finestra anche dei più pragmatici.
Nella storia recente d'Italia, si sono viste "avanguardie rivoluzionarie"
capaci di freddare con un colpo alla nuca delle guardie giurate disarmate
così come di pentirsi e mandare in galera decine di propri compagni
appena sono cadute nelle maglie della repressione; di fronte a questi
fatti non si può evitare di interrogarsi sui fini che animavano
tali "combattenti" e su cosa potessero significare per loro il comunismo
e la libertà.
D'altra parte sovente si tende a sottovalutare il fatto che l'esercizio
della violenza è sempre un'arma a doppio taglio, per le implicazioni
politiche e le conseguenze psicologiche che questa comporta anche per
chi vi ricorre.
Quanto l'idea di libertà - bisogna inoltre chiedersi - è
compatibile con quella della conquista del potere politico?
La rivoluzione russa dell'ottobre 1917 è stata con ogni probabilità
la rivoluzione meno cruenta della storia eppure il potere politico che
questa espresse giunse, degenerando in regime totalitario, a divorare
se stesso e a perseguire col terrore di stato i proclamati fini di liberazione.
La cosiddetta rivoluzione gandhiana, indicata come esempio di movimento
non-violento, è stata in realtà una rivolta nazionalista
che ha portato al potere una minoranza, senza mettere in discussione la
violenza insita nella divisione sociale tra caste e nei cruenti conflitti
inter-religiosi che ancora insanguinano l'India.
Al contrario sulla rivoluzione spagnola vengono fatte ricadere la responsabilità
di violenze che invece appartengono alle destre, alla guerra scatenata
dal fascismo e alla repressione stalinista e questo tentativo vede spesso
liberali e socialdemocratici condividere le accuse dei reazionari, tutti
accomunati dall'intento di esorcizzare il fantasma di una rivoluzione
proletaria che era riuscita a realizzare il comunismo senza Stato, evitando
peraltro di perpetrare massacri.
Per questo la questione della forza rivoluzionaria o dell'alternativa
non-violenta non può essere considerata disgiunta dalla critica
nei confronti del potere e delle sue dinamiche.
Nella consapevolezza che il conflitto sociale ha sempre dovuto fare
i conti con il monopolio della violenza esercitato dallo Stato e che ancora
oggi di fronte alle politiche di annientamento e sfruttamento del dominio
l'etica del pacifismo si presta ad essere strumentalizzata proprio da
chi prepara e propaganda la violenza su vasta scala, risulta sempre più
evidente che chi rifiuta la guerra non può essere in pace con l'autorità.
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