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Da "Umanità Nova" n. 7 del 23 febbraio 2003

Milioni di no alle bombe
15 febbraio: giornata di azione globale contro la guerra


Milioni di uomini, donne e bambini sono scesi nelle piazze del mondo il 15 febbraio dicendo no alla guerra. Senza se e senza ma. Un movimento impressionante che nel nostro paese ha portato nella capitale uno dei più grandi cortei della storia del nostro paese. Difficile persino fare delle stime precise: chi parla di un milione, chi ne azzarda persino tre. In fondo poco conta: le cronache ci parlano di treni affollati all'inverosimile, di centinaia di autobus e macchine in movimento verso Roma; ci parlano dei tanti che nemmeno sono riusciti a partire. A parlare poi sono i balconi e le finestre delle città e dei paesi sempre più tinti dei colori dell'arcobaleno, sempre più espressione di un'opposizione diffusa, capillare alla guerra che Bush e la sua banda di predoni stanno per scatenare contro l'Iraq. Una guerra che, ormai è consapevolezza diffusa, non mira a liberare gli iracheni oppressi dalla dittatura del nazionalsocialista partito Baath, ma a consolidare gli interessi statunitensi nell'area.

Il corteo partito da piazzale ostiense era la fotografia di un movimento popolare diffuso, ampio, difficilmente riducibile ad una delle tante culture politiche rappresentate in quella piazza. Certo per chi pratica un antimilitarismo radicale, dove l'opposizione alla guerra è inscindibilmente connessa alla negazione degli eserciti, degli stati e delle loro presunte "ragioni" era difficile digerire la presenza di chi, come DS, Verdi, Comunisti Italiani era a caccia di un rinverginamento dopo i bombardamenti della Serbia e del Kosovo. Nondimeno questo movimento, pur nei limiti del mero pacifismo, indubbiamente rappresenta un salto di qualità rispetto a quello che scese in piazza nel '99. E non è solo una questione di numeri. Allora l'opposizione alla guerra, tranne che per i settori antimilitaristi più radicali, si giocava sul terreno della "legalità istituzionale", sul piano della diplomazia internazionale e non certo su un autonomo protagonismo di uomini e donne. Costante era il riferimento all'ONU, all'articolo 11 della Costituzione, a consessi e principi esterni, lontani. La retorica della guerra umanitaria apriva ampie brecce nel cosiddetto "popolo della sinistra" al punto che un'operazione vergognosa, in bilico tra la mera propaganda ed il consueto volgare "mangia mangia" nazionalpopolare, come quella "Arcobaleno" raccolse l'adesione di migliaia e migliaia di persone che affollarono gli uffici postali per versare il loro obolo, per gettare una manciata di monetine dove, lo stesso governo che aveva promosso l'iniziativa, stava lanciando tonnellate di bombe "umanitarie" su case, strade, ospedali, autobus.

Oggi i colori dell'arcobaleno sono il simbolo di un'opposizione che non chiede niente alle Nazioni Unite, che non fa appelli all'articolo 11 della Costituzione, che non crede nella diplomazia degli Stati ma nella scelta delle genti. È indubbiamente un passo in avanti, il segnale incontrovertibile che il movimento no-global pur nelle sue molte contraddizioni, pur nell'arrogante tentativo di ingabbiamento istituzionale operato nei Forum locali come in quelli mondiali, ha saputo permeare in modo significativo la cultura di un movimento pacifista nel recente passato ostaggio dell'illusione di un diritto internazionale statualmente garantito. Non era facile, non è facile. L'enorme macchina propagandistica messa in piedi dopo l'11 settembre mirava a creare un consenso intorno alla guerra permanente giocato sulla titanica lotta contro il terrorismo, sul tema dello scontro di civiltà che, all'alba del terzo millennio, riapriva le porte ad operazioni neocoloniali intraprese nel nome di un diritto superiore, di un universalismo della "libertà" di cui gli USA, gendarmi autoproclamati del mondo, si facevano ancora una volta paladini. In nome della lotta al terrorismo sono stati massacrati gli afgani, il loro paese è divenuto un protettorato americano controllato dai "signori della guerra" locali al soldo degli statunitensi. In nome della lotta al terrorismo nell'inferno di Guantanamo è stata cancellata la convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra, quella, per capirci, che nei vecchi film sulla II guerra mondiale era irrisa da signori con la divisa da SS contrastati dai "cavalier di Montezuma" in tenuta da marine. In nome della lotta al terrorismo è stata inaugurata negli USA una legislazione liberticida che consente detenzioni extragiudiziarie, e sono state rafforzate le misure di controllo del territorio che limitano la libertà di tutti. La lotta al terrorismo ha riportato in auge la guerra giusta, quella che non ammette critiche, perché chi critica è un "collaborazionista", un rinnegato schierato con il nemico. Già, il nemico. Un nemico a identità variabile a seconda delle esigenze del momento della superpotenza statunitense. Osama e Hussein, ieri alleati da sostenere, fedeli pedine nel risico mortale per il controllo del pianeta, oggi nemici da abbattere. Anche le regole del gioco mutano in base agli attori in campo. Le ormai famose "pistole fumanti" sono giuste se nelle mani degli autoproclamati difensori della libertà e della democrazia. Armi nucleari, missili intercontinentali, ordigni batteriologici o chimici divengono strumenti del diavolo o "portatori di pace" a seconda di chi li impugna. Come in tutti i peggiori western Saddam è un assassino, Giorge un giustiziere texano.

La nascita e lo svilupparsi di un movimento pacifista sino a pochi mesi orsono era un evento sul quale in pochi erano disposti a scommettere. Dopo l'11 settembre negli Stati Uniti solo gli antimilitaristi più radicali, gli anarchici e pochi altri manifestarono pubblicamente contro la guerra in Afganistan. Oggi, nel cuore stesso dell'impero, nonostante i divieti imposti dall'amministrazione statunitense, le manifestazioni sono state imponenti.

Nel nostro paese, dove ad un governo guerrafondaio si oppone un'opposizione frantumata, divisa, sostanzialmente balbuziente se non afasica il movimento contro la guerra è stato capace di un coinvolgimento popolare senza precedenti. La tardiva, parziale, incerta adesione dei DS segnala più la frattura che non la contiguità con tanta parte della propria base elettorale.

La giornata romana si è caratterizzata per un irrompere felicemente caotico di una folla che ha finito col mischiarsi, disperdendosi per le vie della città, riempiendo di cortei le strade lungo il percorso.

Manifestare "contro la guerra senza e senza ma" può essere un buon punto di partenza per la costruzione di un movimento più radicale. Contaminare i movimenti pacifisti di una più marcata connotazione antimilitarista non è facile: occorre che gli antiautoritari siano parte del movimento di opposizione alla guerra portandovi, come a Roma, la scelta di lottare contro tutti gli eserciti, gli stati, le frontiere. Senza se e senza ma.

Lo spezzone anarchico e antimilitarista, promosso dalla Commissione antimilitarista della FAI, che apriva un più ampio settore autorganizzato, dopo la partenza da piazzale Ostiense, fatto un tratto in comune con il corteo ufficiale, si è staccato e, tagliando per l'Aventino, ha raggiunto il Colosseo e, di qui, piazza S. Croce in Gerusalemme, lambendo di lato la folla assiepata in piazza S. Giovanni. Un guasto nell'impianto di amplificazione non ha permesso che in chiusura si ripetessero i comizi tenuti alla partenza. Stefano Raspa della Commissione Antimilitarista ha ribadito la necessità di fare della lotta contro la guerra un momento dell'opposizione a tutti gli eserciti, le produzioni belliche, l'occupazione del territorio da parte di basi ed installazioni militari. Nelle parole di Stefano sono echeggiati tutti i temi che ci hanno portati a promuovere il corteo di La Spezia, dove la colonizzazione e devastazione del territorio da parte della Marina Militare e della NATO segna pesantemente il destino di una città e dei suoi abitanti. Coniugare un antimilitarismo radicale con un radicamento nelle lotte che, territorialmente, si sviluppano contro il militarismo si traduce oggi nell'impegno quotidiano per inceppare la macchina bellica. Per cominciare lo sciopero generale contro la guerra, il boicottaggio dei trasporti a fini bellici, la non collaborazione fattiva con la guerra, la diserzione.

Per essere, come nello slogan che da La Spezia è rimbalzato potentemente a Roma, "sabbia a non olio nel motore del militarismo".

Eufelia

 

 

 

 

 

 


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