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Da "Umanità Nova"
n. 7 del 23 febbraio 2003
Onu e Nato: continua la schermaglia
diplomatica
La posta in gioco è il comando sul pianeta
Quanto è successo in queste ultime settimane frenetiche segnala
la reale posta in palio della guerra permanente scatenata dai piani americani,
forse concepiti addirittura prima del fatidico 11 settembre 2001.
Il sostanziale isolamento internazionale della coppia Bush-Blair, sorretta
dai reggicoda austrialiani e mediterranei, non è ovviamente un
episodio sfortunato addebitabile allo scarso tasso di intelligenza lungimirante
dell'amministrazione americana. È invece la spia di un disegno
di lungo corso che incontra resistenze davvero notevoli, sia pure sotto
l'ipocrisia dei valzer diplomatici, a tal punto che in molti sono disposti
a:
correre il rischio di frantumare la Nato appena ristrutturata come forza
militare oltre-atlantica, anzi ex-atlantica, dai Balcani al Medio Oriente
(secondo alcuni strateghi la Nato presidierebbe in futuro il confine del
fiume Giordano nord-sud tra mondo arabo e mondo israeliano a controllo
delle risorse acquifere nell'area). Per il momento il rischio di frattura
è stato evitato solo grazie al classico gioco delle parti in cui
ognuno salva la propria faccia;
a spaccare il fronte europeo alla ricerca di una unità politica
a 25, indebolendo l'area euro, l'area commerciale più forte del
pianeta, e asservendola direttamente ai flussi finanziari transitanti
da Londra, piazza egemonica di sicura fede statunitense;
a celebrare il de profundis delle Nazioni Unite e del suo massimo organo
esecutivo di potere planetario, quel Consiglio di Sicurezza che nella
migliore delle ipotesi potrà tornare ad essere un luogo dell'ipocrisia
dei veti incrociati che sostanzialmente approvano conflitti predeterminati
dalla loro collocazione in aree di influenza precise e non opinabili (ma
questa è appunto una ipotesi ottimistica, giacché i tempi
sono mutati e il predominio americano sul XXI secolo registra lo spazio
terrestre e sovraterrestre come una unica area di influenza non spartita
con altri).
In tutto ciò, è evidente che il destino di Saddam e del
suo disarmo è irrilevante: abbiamo già parlato delle ditte
occidentali che hanno fornito aiuti concreti per il programma di riarmo
iracheno sino alla guerra del golfo; da allora, la guerra contro Saddam
non è mai finita, in un gioco delle parti che vedeva il rais utile
per eliminare i curdi indigeribili al fedele alleato turco, per non cedere
un'altra fetta di medio oriente alle dinamiche di penetrazione del fondamentalismo
islamico (assente in Iraq, così come lo era nei territori palestinesi
prima dell'uso israeliano degli islamici per indebolire Arafat all'epoca
della I Intifada), per controllare indirettamente il petrolio iracheno
con il programma food for oil che garantiva al rais le prebende del contrabbando
sorvegliato ai portali di uscita sul Mediterraneo.
Il petrolio iracheno è quindi l'obiettivo secondario degli Usa
in quanto strumento di accerchiamento energetico dei rivali strategici
americani: il futuro colosso cinese. Nel frattempo, il petrolio iracheno
potrà essere una moneta di ricatto verso l'establishment saudita
alla vigilia del ribaltone probabile che vedrà la fine della dinastia
del clan dei Saud, foraggiati e poi macinati così come ora si vorrebbe
con il clan degli Hussein.
In tale ottica, la guerra è per il comando sul pianeta, e null'altro.
Ciò giustifica la tensione in ogni capitale del mondo poco disponibile
a ridimensionare le proprie rendite di posizione plurali e multiple in
una nuova mappa imperiale in cui ritagliarsi una fetta di dependance ridotta
come capoluogo di micro- e macro-protettorati stile XIX secolo. Non che
Chirac e Schröder siano diventati cavalieri no-global e gandhiani
dell'ultima ora, solo che l'asse europeo da loro dominato, già
scricchiolante per via dell'allargamento, verrebbe vanificato dall'asse
anglo-mediterraneo che apparentemente ha già compiuto la propria
scelta di campo, con riflessi immediati in sede Nato per quanto riguarda
la modalità del sostegno alla Turchia in caso improbabile di aggressione
irachena, nel Kosovo, retto da una amministrazione controllata dai tedeschi
in rotta di collisione con i propri partner europei e americani, e in
Afganistan dove gli ingenti capitali tedeschi per la ricostruzione e il
controllo (anche) della diaspora afgana in Europa verrebbero messi a rischio
dalla sconfitta nel braccio di ferra con gli Usa.
Come si sarà notato, la visione geopolitica e geoeconomica della
realtà odierna (ed anche di quella di ieri, per la verità)
deve totalmente espungere dal gioco le opinioni pubbliche e le masse di
dissenso e di resistenza globale al disegno in atto. La stragrande maggioranza
delle popolazioni sono contrarie alle guerre per varie ragioni, di sopravvivenza,
di tornaconto personale, di benessere collettivo, di memoria storica ancora
vivente; tuttavia la determinazione delle proteste di piazza ha il limite
di ogni momento catartico di resistenza: se si risolve nell'attimo della
manifestazione, senza prolungarsi quotidianamente in pratiche di delegittimazione,
di renitenza, di diserzione simbolica e materiale, di sconfessamento delle
élite al potere, rischia di essere eterodeterminata da forti istanze
emotive. Già la storia registra lo sfaldamento del fronte operaio
internazionalista alla vigilia della I guerra mondiale; oggi una (probabile
e già annunciata) serie di attentati cruenti piazzati opportunamente
nelle capitali europee più restie a confondere terrorismo di stato
e controterrorismo prestatuale in salsa fondamentalista, darebbe la stura
ad una immane operazione di marketing politico che in poco tempo farebbe
virare di molto l'opinione pubblica sic et simpliciter a favore dei venti
di guerra.
A meno che, come detto, la pratica antimilitarista contro la guerra
duratura in questa prima metà del secolo non dia luogo a processi
di diserzione globale tali da bloccare l'uso delle armi esautorando le
politiche di dominio che gli stati, foraggiati da avidi capitali in cerca
di mercati di rivalorizzazione, mettono in atto con ferreo cinismo. In
tal senso, allora, la scomparsa della Nato, dell'Ue, dell'Onu non costituirebbe
un regresso destrorso verso il dominio unipolare che scarica luoghi di
egemonia per via di impasse sempre più ingovernabili a livello
economico-produttivo e finanziario-redistributivo (il welfare sostituito
dal warfare), bensì segnerebbe l'eliminazione di spazi di illusorietà
che aprirebbero un orizzonte di riconfigurazione dal basso delle reti
planetarie di coesistenza attraverso un federalismo popolare incentrato
sugli assi dei diritti umani (contro l'ingerenza umanitaria), dei diritti
ambientali (contro il mercato ambientale), dei diritti sociali (contro
la normazione statuale), dei diritti produttivi (contro il mercato statualmente
organizzato), dei diritti redistributivi (contro la mercificazione assimilata
del medium del denaro). Un altro mondo di giustizia sociale globale, insomma,
in cui politica, economia ed etica riallaccerebbero per la prima volta
un proficuo intreccio equo di reciprocità non-istituzionalizzata
in quanto controllata passo dopo passo da una società localmente
radicata a presidio delle proprie consapevoli conquiste e altrettanto
globalmente radicale nella tenacia a perseguire giorno dopo giorno il
controllo delle proprie esistenze libere e infine liberate.
Salvo Vaccaro
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