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Da "Umanità Nova"
n. 8 del 2 marzo 2003
La nebbia tossica
Dall'Etiopia all'Afganistan: italiani brava gente?
Si sa che l'immagine di un popolo, spesso, è legata a doppio filo
a quella del luogo comune. E che questo luogo comune, come tutti i luoghi
comuni del mondo, pur nella sua banalizzazione, contiene sempre alcuni
aspetti di verità. O perlomeno di approssimazione alla verità:
inglesi orgogliosi, tedeschi disciplinati, francesi nazionalisti... italiani
brava gente.
Italiani brava gente! Indubbiamente questa sorta di gratificante autorappresentazione
non può non avere una certa corrispondenza con alcuni di quei caratteri
delle nostre genti che, storicamente, si sono espressi dentro e fuori
i patrii confini. Eppure... eppure, in questi tempi nei quali si sente
nuovamente parlare di guerra chimica e di armi di distruzione di massa,
e si vedono le "nostre" truppe, convenientemente armate, portare la pace
e la civiltà in terre lontane e inospitali, non sarebbe male ripassare
la storia nazionale per cercare di capire quanto, nei fatti, gli italiani
siano, o siano stati, brava gente. O meglio, quanto e quando sia stato
possibile aver fatto di tutto per smentire, drammaticamente, questa immagine
paciosa del nostro popolo.
Nella sua follia avventuristica ed esaltata, il fascismo, tra le altre
cose, pensò anche di dare un impero all'Italia. Epigone di un colonialismo
ormai agli sgoccioli, l'Italietta fascista assecondò allora la
mania di grandezza di Mussolini e marciò, di pari passo, per le
selvagge contrade etiopiche in cerca di gloria. Di gloria, ma anche di
terra per i suoi affamati contadini romagnoli, veneti, calabresi. Eroico
e guerriero, quale mai era stato, ma quale doveva apparire nella fantasia
malata del duce del fascismo, il valoroso soldato italiano portò
la civiltà nel barbarico Corno d'Africa, costruendo strade e ponti,
esportando la propria amministrazione (ma non la democrazia, quella non
c'era neanche da noi), liberando le sottomesse popolazioni amhara dal
terribile giogo del Negus Negasti. E ovviamente impadronendosi di tutte
le ricchezze e le opportunità che la fertile terra dell'altopiano
etiope poteva offrire. Non c'è che dire, una vera "missione umanitaria"
che nella delirante propaganda del regime riuscì a sembrare tanto
convincente da trovare pieno riscontro fra gli italiani. In gran parte,
appunto, brava gente.
Peccato che, per questa sacrosanta e benedetta opera di civilizzazione,
si siano dovute mettere da parte le cavalleresche regole del bon ton per
abbandonarsi, senza scrupoli, alle peggiori nefandezze. Ma del resto il
fine giustifica i mezzi. E à la guerre comme à la guerre.
Dimenticata opportunisticamente anche dopo la caduta del fascismo, appunto
per non scalfire il luogo comune di cui sopra, solo da alcuni anni, grazie
al coraggioso e in un primo tempo solitario lavoro dello storico Lorenzo
Del Boca, è stato possibile ricomporre alcuni tasselli di una storia
militare che copre d'infamia non solo gli alti comandi e il regime che
se ne resero responsabili, ma anche il popolo che entusiasticamente ne
approvò l'operato. Infatti, vincendo le reticenze e le minacce
dei comandi che dopo tanti anni ancora si richiamavano ai valori del passato
regime, Del Boca è riuscito a scovare le prove provate dell'impiego
bellico dei gas e a dimostrarne, soprattutto, l'utilizzo sistematico e
non occasionale. In Etiopia l'esercito italiano, comandato da quei galantuomini
di Badoglio e Graziani, in dispregio di ogni convenzione internazionale,
e - quel che è più importante per noi - di ogni parvenza
d'umanità, fece un larghissimo uso, indiscriminato e spesso gratuito,
di armi chimiche e incendiarie. Oltre a massacrare la popolazione con
le armi convenzionali (si calcolano in settecentomila i morti etiopi in
poco meno di un anno di guerra) oltre ad attuare, a guerra già
finita, una spietata repressione contro ogni forma di resistenza popolare
che sfociò in circa tremila fra fucilazioni e impiccagioni (a quanto
pare, nella nostra missione civilizzatrice, avevamo da insegnare qualcosa
anche ai nazisti), l'aviazione fascista, fiore all'occhiello del regime,
scaricò sull'esercito e sulla popolazione civile tonnellate di
iprite, di bombe urticanti, di liquidi vescicanti e via dicendo, riuscendo
solo con questi mezzi ad avere ragione di una resistenza inaspettata e
alla quale si era, al solito, impreparati.
Giustamente oggi ci riempie di orrore leggere le cronache delle mattanze
kurde operate dall'aviazione di Saddam Hussein. E da uguale orrore siamo
presi nel rivisitare le testimonianze sulle stragi naziste o nell'apprendere
quelle, più recenti, sui mille genocidi che ancora insanguinano
questo civilissimo e modernissimo pianeta. Ma se cerchiamo di convincerci
che tali infamie sono retaggio di selvagge dittature o di popoli abietti,
che dire delle tremende, drammatiche descrizioni degli effetti delle nostre
armi di distruzione di massa? "Fu un carnaio" racconta il Negus, "come
ce n'erano stati pochi durante questa guerra, che pertanto fu senza misericordia.
Uomini, donne, bestie da soma s'abbattevano a terra, colpiti dagli scoppi
delle bombe o ustionati mortalmente. I feriti urlavano per il dolore.
Quelli che avrebbero potuto sottrarsi a questo macello venivano presto
o tardi raggiunti dalla sottile pioggia diffusa dagli aerei. Ciò
che uno scoppio di bomba aveva cominciato, il veleno concludeva. In realtà
era inutile tentare di difendere il corpo dal liquido corrosivo". O ancora:
"Avevamo ricevuto, senza crollare, bombe e barili d'iprite. Contro tutte
queste cose noi avevamo sparato e colpito. La nostra coscienza era tranquilla.
Ma contro la nebbia tossica, che si depositava impercettibilmente sui
nostri volti e le nostre mani, noi non potevamo fare nulla. Tuttavia la
nostra coscienza restava tranquilla. Perché non si può uccidere
la nebbia...".
Della nebbia tossica, parlava Hailé Selassié. E ne parlava
a ragione. Perché se nebbia tossica concreta, impalpabile ma mortale
era quella che cadeva sulle popolazioni etiopiche, un'altra nebbia tossica,
meno assassina ma non meno pericolosa, andava ad avvolgere, vergognosamente,
un'intera nazione fatta di... brava gente. Non c'è bisogno di scomodare
quel trombone psicopatico di Marinetti o i senili vaneggiamenti del vate
D'Annunzio, per rendersi conto di come fu facile, e sia facile, costringere
un'intelligenza collettiva ad arrendersi alle lusinghe della propaganda.
E non c'è bisogno di riandare ai "vecchi tempi" del fascismo per
capire come i meccanismi di creazione del consenso funzionino anche se
questo consenso va a riflettersi nella violenza e nel delitto. E, altrettanto,
non c'è bisogno di ricordare ai compagni, e alle persone che ancora
hanno rispetto per se stesse e per la propria dignità, come questi
meccanismi, aggiornati alle nuove sensibilità, possano nuovamente
portare un popolo di "italiani brava gente" a gridare, istericamente:
guerra! guerra! guerra!
Massimo Ortalli
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