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Da "Umanità Nova"
n. 8 del 2 marzo 2003
Due Maroni per il welfare
Pensioni: il governo prepara l'offensiva
La settimana appena trascorsa ha visto salire sensibilmente la temperatura
sul versante della previdenza. La legge delega in base alla quale il Ministro
Maroni è stato incaricato dal Governo di riformare il sistema ha
fatto qualche passo in avanti, molto lentamente e con molti paletti. La
vicenda che ha però destato maggior scalpore è stata la
presentazione della relazione Brambilla, il sottosegretario al Welfare
che di Maroni è il braccio destro. Vediamo nel dettaglio cosa è
accaduto.
Il governo vuole arrivare a fare qualcosa sulle pensioni entro giugno,
in modo da inserire i primi provvedimenti operativi già nel DPEF.
L'inizio della presidenza italiana della UE segnerebbe così l'inizio
di una vera offensiva europea contro le pensioni, cui il nostro poco amato
governo vorrebbe arrivare con una posizione inattaccabile, della serie
"io a casa mia il lavoro l'ho già iniziato".
I cinque punti della legge delega sulla previdenza sono noti:
- abbassamento della contribuzione a carico delle imprese per i neo-assunti,
in una misura da stabilire tra il 3 ed il 5 per cento;
- incentivi per la permanenza al lavoro di chi ha già maturato
i requisiti di "anzianità";
- liberalizzazione dell'età pensionabile;
- certificazione dei diritti acquisiti;
- destinazione del TFR maturando alla previdenza complementare.
È evidente che la manovra è intelligente e articolata,
tesa ad evitare un nuovo muro contro muro, come quello che contribuì
a silurare Berlusconi nel 1994. Su questi cinque punti i sindacati della
concertazione sollevano un unico problema: l'abbassamento dei contributi
per i neo-assunti. È chiaro che abbassare dal 33% al 28% il totale
dei contributi versati per tutti i lavoratori assunti da adesso in avanti
finisce per minare la tenuta del sistema così com'è. Ma
questo non rappresenta poi una grande novità rispetto a tutti gli
accordi che in questi anni hanno abbassato il costo del lavoro per le
imprese con la legalizzazione delle varie forme di precariato, dai CFL,
all'apprendistato, al lavoro interinale (i co.co.co. pagavano il 10%,
poi il 12%, poi il 16%, ma comunque sempre meno della metà di un
dipendente normale). Abbassare i contributi è funzionale ad abbassare
le prestazioni, ma questo processo è già iniziato con la
riforma Dini del 1995, proseguito con la riforma Prodi del 1997, sempre
sia chiaro con il determinante sostegno della sinistra e dei confederali.
Escluso dunque il primo punto, tutto il resto dell'impianto è condiviso.
È stata la sinistra ad attaccare per prima le pensioni "di anzianità"
(salvando solo i "precoci"), per cui non può opporsi, senza gravi
contraddizioni, ai punti 2, 3 e 4. Quanto al quinto punto, il decollo
della previdenza complementare, la sinistra ed il sindacato sono stati
sempre dei sostenitori entusiasti: fu Ciampi a varare nel 1993 la legge
sui fondi pensione, furono Dini e Prodi a regolamentarli, fu D'Alema a
raddoppiare i vantaggi fiscali previsti per il loro decollo. Il sindacato
punta a gestirli tramite i propri burocrati e lo vede come un nuovo canale
di finanziamento per pagare un alto numero di indennità di carica
ai propri funzionari di alto livello. È evidente che per fare partire
la previdenza complementare ci vuole un propellente finanziario ed il
combustibile può essere soltanto il TFR. È difficile però
convincere lavoratori ed aziende a mollare questa imponente massa critica:
le aziende perché devono tirare fuori una posta di bilancio figurativa
che attualmente serve loro a finanziare a basso costo (il 3-4%), i lavoratori
perché non si fidano sul come verranno investiti i loro soldi (e
i risultati di gestione dei fondi degli ultimi tre anni dà loro
ampiamente ragione). Dunque per fare partire i fondi pensione ci vuole
qualcosa di più oltre agli incentivi fiscali: costringere le aziende
a sganciare il TFR in cambio di qualche compensazione, obbligare i lavoratori
a cedere il TFR con qualche provvedimento di legge d'autorità.
Questo l'hanno capito anche i sindacati, solo che la CGIL e la UIL preferirebbero
"sacrificarsi" per un governo "amico", la CISL magari vorrebbe scaricarne
la responsabilità su un governo più inviso dell'attuale.
Nel frattempo è passata anche in Commissione Lavoro, dopo che
già era passata in Commissione Bilancio, la bozza della legge Maroni.
La Commissione ha però sostituito la fascia 3-5% della riduzione
dei contributi con una forbice 0-5%. In sostanza potrebbe alla fine, in
Aula, non cambiare nulla. A questo punto il Governo ha reagito con durezza,
preannunciando una serie di emendamenti che potrebbero, se approvati,
fare saltare ogni ipotesi di mediazione: ripresentazione della forbice
3-5%, abolizione del consenso del datore di lavoro a fare rimanere in
servizio un lavoratore che abbia già i requisiti, soppressione
di tutte le possibili forme di prepensionamento legate ai casi di crisi.
Se tradotta in realtà, questa impostazione riaprirebbe un duro
confronto con l'opposizione politica e sociale.
Se il Maroni della legge delega è il Maroni di sempre, quello
della relazione Brambilla è quello della mano tesa, tanto da fare
definire il rapporto da Giuliano Cazzola come "un regalo ai sindacati".
La relazione Brambilla non è altro che una riclassificazione della
spesa per il Welfare relativa al 1999, con dei criteri che tendono a separare
in modo diverso le attività di assistenza da quelle di previdenza.
In questo modo vengono considerati separatamente i trattamenti IVS (invalidità,
vecchiaia, superstiti), considerati come una vera e propria spesa per
pensioni, la cui incidenza sul PIL scende dal 17,1% valutato da Eurostat
ad un più ragionevole 11,66%. Questa sarebbe la vera spesa per
pensioni. Il resto della spesa sociale va classificata sotto altre voci:
la malattia (5,12%), gli aiuti alla maternità e alla famiglia (3,15%
e non lo 0,9% di Eurostat), la disoccupazione (1,73% anziché 0,50%)
e così via. La struttura del Welfare italiano sarebbe così
molto più realistica e vicina alle medie europee, pur non cambiando
la spesa totale, che anzi nella relazione Brambilla risulterebbe sensibilmente
più alta di quella valutata da Eurostat. La spesa per pensioni
sarebbe addirittura inferiore a quella della media dei 15, che si aggira
attorno al 14,50% del Pil. Questi dati sono stati usati sia da Pezzotta
che da Epifani per sostenere che i conti delle pensioni sono a posto ed
il bisogno di una riforma non così urgente.
In realtà ci sembra che vadano a combinarsi diverse esigenze
degli attori sociali nella direzione di una riforma soft che eviti lo
scontro frontale ma produca gli effetti più duraturi nel lungo
periodo, attraverso una serie di misure delimitate ma efficaci. Abbassare
i contributi per i neo-assunti, incentivare la permanenza al lavoro senza
imposizioni, passare tutti al sistema contributivo, fare decollare i fondi
pensioni usando la leva del TFR, sono tutti provvedimenti che abbasseranno
il grado di copertura del sistema pubblico e favoriranno il business della
previdenza integrativa privata o cogestita.
Se tutto questo dovesse accadere senza un duro scontro sociale vorrebbe
dire che i due Maroni hanno agito di conserva per ottenere l'obiettivo
prefissato. Che è esattamente quanto ci possiamo attendere, nell'assenza
di iniziative forti da parte del sindacalismo di base e dell'opposizione
sociale.
Renato Strumia
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