|
Da "Umanità Nova"
n. 9 del 9 marzo 2003
Colpire il padrone dove gli
si fa male
Torino: nel limbo dei cassaintegrati Fiat
È a mio avviso sulle forme di lotta che occorre avviare una
meditazione profonda, se vogliamo fare qualche passo in avanti.
Il livello di scontro richiedeva, per "fare male al padrone", una strategia
completamente diversa. Non il blocco degli stabilimenti Fiat, ma quello
delle aziende del gruppo che producono utili e consenso (Rinascente, Auchan,
Alpitour, Fiat Avio, La Stampa, Il Corriere della Sera). Non scioperi
nelle fabbriche da chiudere, ma scioperi nei punti strategici del ciclo
produttivo (a Melfi, a Termoli, a Pomigliano, a Pratola Serra, alla Powertrain
di Mirafiori), l'organizzazione delle casse di resistenza in favore dei
lavoratori dei punti nevralgici, il sostegno attivo di altre categorie
con ogni mezzo utile per tentare una estensione della lotta. È
evidente che è facile dirlo, e tutta un'altra cosa provarci davvero.
Del resto si tratta di un modo di organizzare la resistenza sindacale
che non fa certo parte della tradizione storica, che richiede un livello
di maturità e di consapevolezza sociale estremamente complesso,
una struttura organizzativa estesa, collaudata ed efficiente.
Renato
Strumia, "Fiat: lezioni da una vertenza scomparsa" in "Collegamenti Wobbly,
per una teoria critica libertaria" n. 3, marzo 2003
Torino 18 febbraio 2003 ore 14,30
Davanti alla sede della provincia di Torino, nella centrale Piazza
Castello, oltre un centinaio di cassaintegrati Fiat si è trovato,
su convocazione del Comitato di Lotta per il sostegno ai lavoratori della
Fiat per rivendicare l'assegnazione diretta ai cassaintegrati delle risorse
che la provincia intende destinare a corsi di formazione per gli stessi
cassaintegrati.
Che la logica che muove la provincia sia scandalosa è evidente.
Mentre migliaia di lavoratori hanno un reddito che oscilla sui 500 euro,
l'amministrazione locale, di sinistra, intende utilizzare le risorse che
ha a disposizione per finanziare se stessa e il proprio milieu di "formatori"
presumibilmente anch'essi di sinistra.
L'assessore Mercedes Bresso riceve una delegazione di quindici persone,
molti cassaintegrati sono tesi, non si fidano, vogliono portare all'attenzione
dell'"autorità" i loro casi personali. Rilevo che la maggior parte
dei presenti è costituita da donne non più giovani, non
particolarmente sindacalizzate e men che meno caratterizzate da un chiara
identità politica. Sono lavoratrici, persone normali che vivono
una situazione drammatica, una situazione che non sanno collocare in un
quadro generale.
Mi domando come mai siano venute alle assemblee del comitato di lotta
ed al presidio. È evidente che non si fidano di FIM, FIOM e UILM
ma, di per sé, questa mancanza di fiducia non può essere
interpretata come prova di una particolare radicalità. Ne ragiono
con un bravo compagno, un po' troppo rigido ideologicamente, almeno a
mio avviso. Lui tende a liquidare alcuni discorsi ed atteggiamenti come
segno dell'arretratezza del movimento di classe. Lo rimprovero bonariamente
e lo invito a non assumere atteggiamenti aristocratici. Devo, però,
riconoscere che quello che si muove dinanzi alla provincia a tutto fa
pensare tranne che alla classe sulla quale si è prodotta
tanta, di regola mediocre, letteratura.
Queste lavoratrici sono, con ogni evidenza, consegnate alla solitudine
individuale, all'irrilevanza sociale, alla straordinaria difficoltà
se non all'impossibilità di agire in forma diversa dalla, assolutamente
necessaria, richiesta di un sussidio o di un'integrazione del reddito.
Quando la delegazione scende, deve informare i presenti del fatto che
la compagna assessora ha pasciuto i cassaintegrati di chiacchiere, non
ha preso alcun impegno preciso, ha proposto ai manifestanti di lasciare
il nome in modo che l'amministrazione possa prendere in considerazione
i singoli casi sulla base della situazione personale e familiare.
Non invidio i compagni saliti in delegazione, so bene come in casi del
genere i lavoratori tendano a prendersela con i militanti perché
non hanno "ottenuto risultati".
Vedo, comunque, molte cassaintegrate precipitarsi a segnalare il proprio
nome.
Torino, 18 febbraio, ore 17,30
Nello stesso luogo c'è un presidio di lavoratori della
scuola contro la Riforma Moratti con richiesta di incontro con il prefetto.
La prefettura, infatti, ha la sede nella porta accanto a quella della
provincia.
La presenza di insegnanti è meno numerosa rispetto a quella dei
cassaintegrati Fiat. Eppure c'è una differenza a favore degli insegnanti.
È presente la televisione e la stampa. I cassaintegrati sono, con
ogni evidenza, meno interessanti dei lavoratori della scuola. Forse un
caso ma non credo e, in ogni caso, una situazione emblematica. Nella città
della Fiat, oggi, i cassaintegrati sono un problema sociale, una questione
imbarazzante ma non un soggetto politico e, soprattutto, non un soggetto
politico autonomo.
Per di più, i due spezzoni di opposizione sociale che si sono
trovati nello stesso luogo non hanno comunicato tra di loro se non attraverso
la mediazione di alcuni militanti.
Si sono, insomma, mossi due segmenti dell'universo del lavoro salariato
che vivono vicende entrambe importanti e che fanno i conti con una relativa
solitudine.
Una valutazione meno immediata
La situazione attuale era assolutamente scontata, questo credo
sia evidente. Lo era per ragioni ampiamente indagate. Come scrive giustamente
Renato Strumia, il sindacalismo istituzionale non ha voluto portare lo
scontro all'unico livello e sull'unica piattaforma che avrebbe potuto
vincere e il sindacalismo di base non ne aveva la forza se non in alcuni
stabilimenti e certo non a Torino.
D'altro canto, la mobilitazione dei lavoratori non è mai stata
di tale radicalità da costringere l'apparato sindacale a sforzi
eccessivi per tenerla sotto controllo. Si sapeva che la cassa integrazione
avrebbe diviso i lavoratori ma la consapevolezza di questo fatto non bastava
e non basta a ribaltare la situazione.
Il movimento di classe ha pagato a caro prezzo, questo è sotto
gli occhi di tutti, la divisione fra sindacati, i loro legami con il sistema
dei partiti, le diverse modalità di relazioni con il padronato
e con il governo ma sarebbe ridicolo presentare questo fatto coma una
novità sbalorditiva o come una questione risolvibile con appelli
all'unità sindacale. Il quadro sindacale apertamente giallo aspetta
tranquillo il passaggio del cadavere del sindacalismo conflittuale e conta
di recuperare sul piano della concertazione reale, poco conta se la si
chiama dialogo sociale, quello che ha perso in immagine. Lo stesso atteggiamento
che hanno preso i dirigenti CISL di fronte alle minacce di Federmeccanica
nei confronti di chi ha scioperato il 21 febbraio qualcosa vuol ben dire.
D'altro canto la questione dell'unità e dell'autonomia sindacale
rimanda all'effettiva esistenza di un'autonomia di classe, rispetto all'iniziativa
padronale e governativa, autonomia che oggi si manifesta solo sporadicamente
e localmente.
Per fare un solo esempio, la stessa diffidenza di molti militanti operai,
pure combattivi ed onesti, di fronte alla proposta della riduzione radicale
dell'orario di lavoro indica le difficoltà di fase. Il primo argomento
che sollevano, infatti, è abbastanza semplice e persino condivisibile:
una proposta del genere non sarebbe "compresa" dagli operai che oggi hanno
il problema del reddito e della garanzia del lavoro.
Il punto, però, è proprio questo. Se affrontiamo, e certo
non possiamo fare a meno di farlo, le crisi industriali una per una non
abbiamo alcuna proposta credibile. Infatti, o immaginiamo che i
padroni smantellino le aziende per cattiveria o dobbiamo ammettere che
qualche ragione ce l'hanno.
Si tratta, allora, di partire da un punto di vista che non può
essere aziendale, di liberarci dell'idea balzana che i lavoratori debbano
proporre piani industriali più seri di quelli dei padroni et similia.
O si assume il fatto che va ripresa l'iniziativa sulla ripartizione
della ricchezza sociale, che questo si può fare solo colpendo il
padrone dove gli si fa male e non inseguendo i punti di crisi uno
per uno o si è condannati alla sconfitta.
La vertenza Fiat oggi è in latenza ma a breve si riaprirà.
E, per allora, dovremo essere pronti a bloccare le aziende che è
interesse del padrone tenere in funzione, dovremo aver costruito una rete
organizzativa adeguata, dovremo aver orientato in tale senso le organizzazioni
sindacali nelle quali siamo presenti.
E dovremo fare questo mentre il clima di guerra incombe, mentre prepariamo
iniziative di sciopero contro la guerra stessa, mentre altre vertenze
sono in corso.
Si tratta, soprattutto di evitare di pensare che la vertenza Fiat appartenga
al passato. Nella lotta di classe non c'è, infatti, una logica
del genere. Il modo nel quale usciremo da questa vertenza è fondamentale
anche per quelle che conduciamo nei settori più "moderni" del lavoro
deregolamentato, nei call center, nelle aziende dell'informatica.
Hic Rhodus, hic salta
Cosimo Scarinzi
|
|
|
|
|
Redazione fat@inrete.it Web uenne@ecn.org Amministrazione
t.antonelli@tin.it
|