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Da "Umanità Nova" n. 12 del 30 marzo 2003

L'ONU e l'aggressione USA all'Iraq/1
Il "diritto" del più forte



Sono finiti i tempi in cui gli ambasciatori consegnavano le dichiarazioni di guerra ai governi nemici, preannunciando una serie di mosse in un codice cavalleresco che poi si è tramutato in una precisa serie di figure giuridiche con cui fare una guerra, normate dalle Convenzioni dell'Aja (1899 e 1907) e di Ginevra (1949). C'è un modo corretto anche di muovere in guerra (ius ad bellum) e di fare la guerra (ius in bello), leggermente ipocrita vista la tecnologia a disposizione ma anche segno di contenimento di civiltà a fronte della barbarie personificata nella violenza distruttiva delle armi.

Oggi le formalità sono superate, gli stati di guerra sono annunciati in prime time alle 20 di sera, le ragioni del diritto internazionale sacrificate sull'altare della realpolitik, i passi di contenimento del ricorso alla violenza e al terrore militare ridotti al minimo, con un minuetto funzionale al pieno dispiegamento della macchina bellica.

Così è avvenuto anche in sede Onu, che ritorna ad essere quel che è stata sino al 1990, ossia un forum di parole sagge che vela la brutalità dell'agire degli stati sul pianeta ridotto a spoglie di cui impossessarsi, prima in una divisione bipolare, oggi in una spartizione unipolare. Il tempo di approvazione della ris. 1441 dal novembre sino ad oggi è servito infatti non per saggiare e verificare quanto prescritto, bensì per allestire la macchina militare sino al punto di impedire la marcia indietro: 300mila soldati in area non erano stati trasportati certamente per viaggio-premio di fine anno nel deserto kuwaitiano...

Gli equilibri nel Consiglio di Sicurezza riflettono assetti nati all'indomani della II guerra mondiale, con gli alleati predominanti a cui si aggiunse la Cina potenza nucleare dichiarata negli anni '50. Oggi le potenze nucleari sono altre, alcune sotto controllo incrociato e verificato dall'agenzia apposita viennese (AIEA), altre proliferate più o meno di nascosto: Israele, Sudafrica, Pakistan, India, forse Iran e Corea del Nord. Il veto concesso agli ex-alleati andrebbe quanto meno redistribuito e allargato, se l'Onu volesse restare alla logica del dopo Yalta, ma ovviamente non è così, e già da anni si discute a vuoto su come riformulare gli assetti decisionali dentro il CdS.

Questa guerra unilaterale viola tanto palesemente il diritto internazionale, sino a configurare quel reato di aggressione oggi in discussione all'Onu come previsto dal Trattato istitutivo della Corte Penale Internazionale appena insediatasi all'Aja, presieduta da un giurista canadese, che prevede appunto tra le tipologie di reati internazionali cui chiamare a responsabilità la catena di comando civile e militare, capi di stato inclusi, anche il reato di aggressione militare la cui definizione è stata demandata all'Onu dal luglio 1998, quando è nata la CPI. Gli Usa non hanno ratificato quel Trattato e si sono pure premuniti di stipulare accordi bilaterali con singoli governi per esonerare i militari a stelle e strisce sparsi per i quattro angoli della terra a poter subire processi in loco e addirittura ad essere estradati all'Aja.

L'unilateralismo Usa, dei repubblicani un po' più accentuato dei democratici tipo Clinton, ovviamente affossa qualsiasi ipotesi di riforma dell'Onu e ritorno in pieno vigore di quell'intesa dei grandi che ha funzionato nella finestra tutto sommato di breve respiro dal 1990 ad oggi. I veti incrociati faranno regredire l'Onu ad un consesso impotente come è sempre stato di fronti ai veri potenti, mentre recupererà prestigio e credibilità in quelle operazioni minori in cui tutti saranno d'accordo, come le operazioni di monitoraggio, di peace-keeping, di peace-enforcing e di nation-building in aree in cui non vale la pena rischiare vite superiori (i militari occidentali). Infatti persiste il divieto de facto di dare corso operativo a quella parte della Carta dell'Onu del 1945 che sanciva la costituzione di un esercito multinazionale a guida del Segretario generale dell'Onu, dotato di forze proprie (sia pure prestate da singoli governi), con mandati e catena di comando civile e non di coalizioni capitanate da una potenza, tipo operazioni caschi blu in Somalia, per intenderci. Mai attuato, ovviamente, per non spogliarsi di una forza unilaterale da far valere al momento opportuno.

Il de profundis delle NU non significa la loro dissoluzione, anzi la loro sopravvivenza distoglierà pacifisti e sinceri democratici da reali battaglie antigovernative ad ogni livello dello scenario nazionale e internazionale. L'unione dei popoli è tutta da costruire per vie e passaggi costituenti nell'unico spazio di intesa possibile senza egemonie virtuali e potenziali: ossia lo spazio delle società civili, delle associazioni di base, delle (vere) organizzazioni non governative, prima su scala regionale e poi su scala sempre più allargata (cioè in senso inverso del percorso di Porto Alegre, che nasce prima mondiale e poi regionale).

Salvo Vaccaro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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