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Da "Umanità Nova" n. 13 del 6 aprile 2003

Chi vince e chi perde
Nel pantano iracheno



Alcuni anni fa, più precisamente nel '97, John Kerry, probabile candidato democratico alla Casa Bianca nel 2004, affermò che "l'esercito iracheno è in così pessima forma che perfino gli italiani potrebbero prenderlo a calci nel sedere".

La realtà delle prime settimane di guerra in Iraq sta dimostrando che in Usa non soltanto il senatore Kerry aveva sottovalutato la resistenza opposta dagli iracheni all'attacco militare delle forze d'invasione statunitensi, britanniche ed australiane.

Secondo alcune previsioni della vigilia si era persino parlato di una guerra-lampo e ipertecnologica di appena 72 ore, invece adesso non soltanto gli aggressori devono registrare un numero imprecisato di morti, prigionieri, tank distrutti e velivoli abbattuti, ma è l'intera strategia di "guerra globale" nell'area che sta insabbiandosi in una situazione che più che al Vietnam fa venire alla mente lo scenario della Cecenia.

Consapevoli che, per la disparità delle forze sul piano tecnologico, uno scontro in campo aperto sarebbe un suicidio, i comandi militari iracheni hanno scelto una tattica mobile nelle distese desertiche, costringendo allo stesso tempo gli anglo-americani al logorante assedio dei centri urbani.

Non siamo ancora alla guerriglia - come impropriamente detto da qualche giornalista - ma di certo si tratta di un modo efficace di utilizzare un esercito convenzionale.

E a questo punto i principali problemi politico-militari che l'imperialismo anglo-americano si trova ad affrontare sono del tutto evidenti.

Innanzitutto però sono di tipo "culturale" e riguardano proprio il diverso peso psicologico delle perdite umane.

Gli Stati Uniti e i loro alleati non possono permettersi, di fronte ad un'opinione pubblica interna già divisa sulle ragioni del conflitto, un eccessivo costo in termini di soldati morti e feriti in terra straniera, per quanto la propaganda possa esaltare il loro sacrificio in nome dell'11 settembre, della lotta al terrorismo, della democrazia e degli interessi economici vitali per la nazione.

E non possono neppure consentire dei massacri indiscriminati di civili iracheni, perché significherebbe arrivare ad una rottura coi pur compiacenti Paesi arabi e islamici.

I fantasmi del Vietnam restano infatti ben vivi - anche perché molti reduci di allora partecipano alle manifestazioni pacifiste di oggi - ed il governo Bush deve farci i conti. La società americana è permeata di violenza, da quella "normale" con le armi in vendita nei supermarket a quella legale della pena di morte, ma storicamente non conosce e quindi non può accettare elevati prezzi umani per una politica di guerra.

Basti un dato: il conflitto costato in assoluto più vite americane rimane la Seconda guerra mondiale nel corso della quale, dal '41 al '45, morirono sui diversi fronti poco più di 400 mila soldati ossia circa la metà delle perdite irachene immolate nella guerra contro l'Iran e nella prima "guerra del Golfo" del '91.

Per questo, se qualche stratega di Washington ha pianificato il crollo del regime di Saddam Hussein come conseguenza delle perdite umane inflitte all'esercito e alla popolazione irachena ha sicuramente errato i suoi calcoli, anche perché comunque la difesa irachena risulta a tutti gli effetti volta a difendere il proprio territorio da un'invasione straniera assetata di petrolio, tanto da far accantonare anche i dissensi popolari nei confronti del regime stesso.

Inoltre appare ovvio che né la minoranza curda al Nord né quella sciita al Sud hanno mostrato sino ad ora alcun entusiasmo nel sostenere la guerra di Bush&Blair, in quanto è evidente che pure in caso di una vittoria occidentale non c'è alcuna garanzia per un riconoscimento della loro indipendenza, indipendenza che non significa soltanto il riconoscimento del diritto di autogovernarsi ma anche quello di sfruttare gli ingenti giacimenti petroliferi presenti nei loro territori.

Al Nord un Kurdistan libero sarebbe peraltro inaccettabile per lo Stato turco, mentre al Sud un'entità autonoma sciita diventerebbe con ogni probabilità un protettorato iraniano.

Dopo le prime fasi della guerra, secondo la maggior parte degli osservatori e degli analisti, rimane ora fondamentale la conquista di Baghdad, capitale-mausoleo del potere di Saddam Hussein, contro cui in queste settimane la coalizione imperialista ha sganciato già rilevanti quantità di missili e bombe, seminando stragi e distruzione, nell'illusorio tentativo di terrorizzare i vertici del regime e la popolazione; ma anche tali bombardamenti comportano un rilevante rischio militare nella prospettiva di una guerra urbana, quartiere per quartiere, casa per casa.

Devastare infatti una città di circa cinque milioni di abitanti, come insegnano i precedenti di Stalingrado o Cassino, significa favorire i difensori che potrebbero asserragliarvi meglio, rendendo invece impraticabile il terreno ai mezzi corazzati degli attaccanti ed annullando il gap tecnologico esistente sulla carta tra il marine Hi Tech e il miliziano armato col vecchio AK47 nascosto tra le rovine della propria casa.

Inoltre tale eventualità finirebbe per creare un mito e un simbolo che, aldilà degli esiti scontati della battaglia, rappresenterebbe forse la vera sconfitta per i progettisti della guerra permanente: chi vince perde e chi perde vince.

Uncle Fester

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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