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Da "Umanità Nova" n. 13 del 6 aprile 2003

Alle radici del conflitto in Iraq
Progetto per un nuovo secolo americano



Tra le varie ragioni addotte per giustificare la guerra contro l'Iraq, due sembrano maggiormente gettonate, oltre quella del petrolio naturalmente: la missione contro il terrorismo all'indomani dell'11 settembre 2001, che prevede il ricorso alla guerra duratura e, da quest'anno, anche preventiva; la democratizzazione dei paesi a scarsa vocazione liberale come corollario della colonizzazione mercantile del mercato globale e quindi dei mercati locali.

Quest'ultimo alibi dell'amministrazione Bush è smentito dalla stessa pianificazione anglo-americana, che sembra non concordare sul futuro democratico dell'Iraq e della regione araba mediorientale all'indomani di Saddam Hussein, destinato a essere sacrificato dopo aver reso numerosi servigi alla causa occidentale sino ad oggi. Una prova è l'altalenante dialettica con la Turchia per ciò che concerne l'autonomia curda nel Kurdistan iracheno, che costituirebbe un pericoloso precedente per il regime turco, preoccupato di far quadrare il cerchio della progressiva avvicinamento all'Unione Europea risolvendo in termini classici l'appartenenza alla cittadinanza turca di 10 milioni di non-cittadini di etnia curda dentro i loro territori, la cui condizione è suscettibile alla sirena indipendentista o fortemente autonoma-federalista balenata come scambio in Iraq per l'appoggio dei peshmerga alle truppe anglo-americane contro Saddam, dittatore sanguinario dei curdi con buona pace degli attuali denigratori di Saddam muti e distratti nel 1988 quando, con le armi chimiche vendutegli da imprese tedesche e americane, gasava ad Halanja 5mila civili.

La banale considerazione storico-politica che la democrazia è un processo di conquista civile di diritti e libertà maturate nella conflittualità sociale, esclude la guerra quale vettore di produzione esogena di istituzioni e di pratiche culturali che solo le popolazioni, nella dura contrapposizione con i propri governanti, possono conquistarsi senza aiuti esterni per giunta non graditi e violenti. Del resto, così sono nate le democrazie in Occidente e non si capisce perché altrove debbano nascere altrimenti, tranne che tale obiettivo sia espresso solo per uso propagandistico...

Per quanto invece concerne la prosecuzione della guerra duratura contro il terrorismo non-statale dell'11 settembre, oltre a mancare le prove del coinvolgimento del regime di Saddam con Al Qaeda, fonti interne all'establishment Usa smentiscono clamorosamente tale tesi ugualmente propagandistica. Già i lettori di UN (n. 41 dell'8 dicembre 2002) hanno potuto leggere la sintesi finale di un lungo studio politico bipartisan sulla difesa americana da minacce terroristiche sul suolo nazionale, elaborato e stilato negli anni 1997-2001, sotto amministrazione democratica del presidente Clinton, che con lungimiranza sospetta anticipava modifiche politiche e istituzionali avvenute con accelerazione non improvvisa all'indomani dell'11 settembre.

Ho sotto mano un Report del Project for the New American Century, datato settembre 2000, alla vigilia del voto in Florida che decideva la vittoria presidenziale del candidato Bush grazie ai riconteggi dei voti di uno stato governato dal fratello e con l'intervento della Corte Suprema. Tale documento, stilato da studiosi e esperti che oggi risiedono in alcuni posti-chiave dell'amministrazione americana (tra cui William Kristol, Robert Kagan e Paul Wolfowitz), si riallaccia al Piano di difesa americana varato dall'allora Segretario alla difesa dell'era Bush sr. nel 1992, Richard Cheney, poi passato a dirigere la Hullyburton, impresa a vasto raggio di commissioni belliche che col Pentagono sta attualmente lavorando per ritagliarsi una bella fetta degli aiuti Usaid nella ricostruzione del dopo-Saddam, grazie ai buoni uffici del suo ex Ceo oggi niente meno che vice-presidente Usa.

Il titolo del Report è Rebuilding America's Defense. Strategy, Forces and Resources for a New Century, che sarebbe il XXI secolo, da rendere il secolo americano senza competitori e rivali analoghi per peso e potenza, come fu nel XX dell'era bipolare quando il predominio andava diviso in condominio con l'altra superpotenza (magari un po' sopravvalutata). Oltre a una serie di raccomandazioni sul ruolo delle diverse forze armate e sui suoi armamenti strategici, il Report invita a riconsiderare innanzitutto la flessione del budget del Pentagono che sfiorava appena il 3% del Pil, riportandolo ad oltre il 4.5%, pari a 90 mld di $ annui (Bush dopo l'11 settembre l'ha ulteriormente innalzato a quasi 150 mld $!). Il budget del Pentagono è infatti funzionale dal ruolo di dominio "unipolare" che gli Usa dovranno esercitare nel pianeta, dopo la vittoria della guerra fredda: "Gli Stati Uniti dovranno essere risoluti a plasmare un nuovo secolo favorevole ai principi e agli interessi americani? [Per fare ciò], è necessario un esercito forte e pronto ad affrontare le sfide presenti e future; una politica estera che promuova con vigore e determinazione i principi americani all'estero; una leadership nazionale che accetti le responsabilità globali degli Usa".

Ciò significa, per gli autori del Report, un rafforzamento delle strategie offensive dei corpi congiunti d'armata, in grado di tutelare gli interessi e i valori americani nei tre grandi teatri di interesse su cui scaldare i muscoli per imporre il proprio dominio unipolare in via unilaterale: Europa, Medioriente e, soprattutto, Asia orientale, indicato come il teatro strategico per eccellenza. Già il campo di azione ed il peso politico specifico del Segretariato di Stato è stato snellito a favore del Pentagono e dei Dipartimento del tesoro e del Commercio Estero congiuntamente, mentre il residuo di multilateralismo viene sacrificato a meno che le élite locali dei vari paesi alleati non si subordinino all'unica superpotenza (anticipiamo una delle considerazioni di Tom Barry, studioso americano, in un prossimo saggio che apparirà sul trimestrale "Libertaria" il prossimo mese di aprile).

Che l'Iraq costituisca un banco di prova di questa strategia a lungo termine di dominio planetario è già acquisito sin dal 1994, quando gli eredi sconfitti dell'amministrazione Bush Sr. pregustavano la rivincita non tanto contro Saddam quanto contro il mondo intero che allora legava le mani agli Usa nell'ampia coalizione guidata dall'Onu limitatamente alla liberazione del Kuwait. Oggi in più, rispetto ad allora, emerge una chiara consapevolezza di tale missione secolare, intrisa di integralismo religioso, che conduce gli autori del Report ad ipotizzare un ulteriore corpo d'arma (dopo l'Esercito, la Marina e l'Aviazione), ossia lo US Space Forces per un dominio sull'atmosfera il cui controllo consente la tenuta dei sistemi di Comando integrato delle comunicazione e delle risorse tecnologiche e informative che fanno la differenza nelle nuove concezioni belliche (peraltro spiazzate da vecchie tecniche di resistenza anomale: guerriglie classiche e informatiche, partecipazione civile armata, ecc.).

Certamente, il Report del 2000 non anticipa gli scenari odierni con puntualità, non prendendo affatto in considerazione quanto l'uso esclusivo delle armi rappresenti un segno di debolezza politica poiché difficile risulta conseguire reale egemonia sul pianeta senza utilizzare la politica e confidando solo sulla deterrenza nucleare da far diventare compatibile con gli usi usuali delle armi strategiche (quindi in un certo senso tatticizzandole) e più in genere con gli enormi arsenali di armi di distruzione di massa, rimproverati incertamente a Saddam ma di certa proprietà in mano alle più grandi potenze del pianeta. Tuttavia, il Report segna l'indubbio pregio della chiarezza di intenti, leggibili nero su bianco, che delineano una strategia complessiva del ruolo Usa nel mondo, al di là probabilmente del destino di questa amministrazione Bush e delle successive: un ruolo di dominio unipolare che avrà nell'oriente asiatico il momento clou del conflitto permanente in questo XXI secolo, e che quindi comincia a costruire una manovra a tenaglia in Medio Oriente e nell'area caspica centro-asiatica per predisporre al meglio la pedine e gli apparati logistici (quindi anche di forniture energetiche) in vista della battaglia finale, asfissiando e accerchiando a lungo termine il competitore rivale degli Usa a metà XXI secolo, confliggendo quindi con le pretese della destra americana democraticamente (ma con quanti brogli?) al potere.

Salvo Vaccaro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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