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Da "Umanità Nova" n. 14 del 13 aprile 2003

Tra l'incudine e il martello
I curdi, pedine nello scacchiere iracheno



Che la democratizzazione di un Iraq "liberato" dal dittatore Saddam sia un alibi propagandistico angloamericano è dimostrato in modo più che lampante dall'incertezza con cui viene affrontata la questione dei Kurdi. Questa popolazione di oltre 40 milioni di individui, di cui la metà concentrata nel Kurdistan che è un'area mediorientale a geografia continua, ma a territorialità politica frammentata in quanto solcata da confini di 4 paesi (Turchia, Iraq, Ira e Siria), ebbe la propria patria per un paio di anni all'indomani della dissoluzione dell'Impero ottomano in seguito alla sconfitta nella I guerra mondiale. Ciò che avevano ottenuto dagli Alleati nel 1920 lo persero incredibilmente nel 1923, ritrovandosi da allora perseguitati a casa propria, cittadini di serie b - nella migliore delle ipotesi, come in Siria - gasati e sterminati a migliaia da turchi e iracheni con la complicità attiva (delle imprese occidentali che fornivano Saddam dei gas) e inerte (delle potenze occidentali alleate con Saddam nel decennio 1980-1990). La sollevazione kurda con la sconfitta di Saddam nel 1991, sollecitata dall'amministrazione Bush sr., fu stroncata dalla guardia repubblicana, lasciata colpevolmente libera da ogni controllo della coalizione vittoriosa che aveva liberato il suolo kuwaitiano dall'esercito invasore; il rifugio sulle montagne dell'Anatolia, braccati dai militari turchi, diede luogo ad un esodo massiccio e impressionante che spinse l'Onu a inviare aiuti umanitari che salvarono allora i kurdi da un ennesimo sterminio di massa.

A distanza di dodici anni, resta la diffidenza kurda nei confronti degli appelli rilanciati da Bush jr. tesi a integrare i peshmerga quale truppa da campo per la carneficina di bassa cucina cui risparmiare le truppe americane. Tutto ciò senza mettere sul piatto un qualche straccio di soluzione della questione kurda, che non viene citata nemmeno per sbaglio dai turchi che pure dovrebbero modificare le norme del proprio ordinamento interno relativo alla tutela delle minoranze culturali e linguistiche se intende realmente entrare nell'alveo dell'Unione Europea allargata. I Kurdi non sono stati nemmeno consultati sul futuro iracheno, la cui integrità territoriale viene costantemente ribadita quasi a voler preannunciare una suddivisione d'influenza che però non risponde alle reali presenze sul territorio, invaso nella sua totalità dai militari angloamericani che si candidano a gestire il dopo Saddam in esclusiva, senza allargare alle Nazioni Unite e senza cedere alle lusinghe di una politica multilaterale: troppi sono gli appetiti imprenditoriali, troppi sono i dividendi dei petrodollari qualora l'Iraq sfornasse milioni di barili al giorno, troppa è la tentazione di fare da soli come è pratica dell'attuale élite al potere negli Usa, protesa al dominio planetario.

Turchia e Kurdistan sono realtà antagoniste che gli Usa non possono gestire e controllare a piacimento, e grosso è il pericolo che corrono i peshmerga, destinati ad un sacrificio (l'ennesimo!) una volta sbaragliati gli iracheni; infatti nell'area autogovernata da Barzani e Jalabani, leader riconciliati delle due principali fazioni kurde presenti nel Kurdistan iracheno (il secondo legato alla presenza kurda in Iran), insistono città simbolo dell'Iraq storico (Mosul), per non parlare di Kirkuk, capoluogo e grosso centro di produzione e smistamento di oleodotti il cui passaggio ha ingrassato i padroni della resistenza kurda in questi anni di relativo sganciamento dal sistema di potere di Saddam. Questa area è cruciale in prospettiva anche per la linea di connessione tra Siria e Iran, terminale prima del Mediterraneo di condutture provenienti dall'area caspica e centrorientale, altro bacino energetico di rilievo quale contraltare del medio oriente.

È prevedibile che chi gestisca il controllo in questa area goda di una fiducia al cento per cento da parte dei nuovi signori dell'Iraq, ossia gli americani, e i Kurdi non sono certo i candidati ideali per svolgere il ruolo di fedeli vassalli, visto il conflitto irrisolto con gli alleati Nato della Turchia e considerate le pretese di autonomia, anche non indipendentista, che però lega i Kurdi ovunque essi siano, quindi nell'Anatolia meridionale soprattutto.

La risistemazione, modellata magari sulla geografia politica di Sykes e Picot degli anni Venti, ossia squadrata ai fini degli interessi occidentali e immemore di ogni specificità in loco delle popolazioni residenti da secoli, è ancora lungi dall'essere stata studiata e proposta come futuro assetto. Più credibili l'ipotesi di un governatorato Usa militare prima, civile poi, magari sostenuto dalle Nazioni Unite in una seconda fase, che gestisca la ricostruzione in dollari che rientreranno nel ciclo recessivo dell'economia Usa, dato che è stato imposto con le armi da leader provenienti da imprese interessate e coinvolte nei lavori "umanitari" (ad esempio, la Halliburton del vicepresidente Cheney, la Bechtel del'ex segretario di stato di Reagan, Shutz, la Chevron della Condoleeza Rice, e via dicendo su questo tipico tenore di conflitto di interessi...).

In tutta questa ampia gamma di ipotesi micidiali per le esistenze delle popolazioni in loco, i Kurdi sembrano godere del triste privilegio di essere i più reietti della zona, senza uno sponsor nel resto del mondo forte da imporre la questione kurda come un'altra questione palestinese sul cui conflitto dividere le sfere di interesse geopolitico delle potenze e delle opinioni pubbliche. In tal senso, i Kurdi non godono dell'analogo fervore della stampa di sinistra, anche per via delle divisioni interne che hanno condotto in passato a scontri fratricidi, forse perché il modello di società clanica da essi veicolato non corrisponde ai desiderata auspicati da una militanza occidentale ancora troppo legata ai miti di una omologazione delle lotte di autodeterminazione secondo il modello nostrano di forma politica da istituire (lo stato nazionale). Basti ricordare il consenso goduto a sinistra dal comandante "Apo" Ocalan che ha utilizzato la lotta armata di pallida assonanza con le lotte comuniste, per regolare conti interni, per sterminare i dissidenti interni, per accentrare nel Pkk ogni altra ipotesi di resistenza e di liberazione dall'assoggettamento quadristatuale.

Lungo tale strada lastricata di deboli simpatie, si è giocato e si gioca tuttora il destino della popolazione kurda, e sinceramente non trovo ragioni per ritenere che la "liberazione" angloamericana possa essere una soluzione adeguata alle loro esigenze di libertà da ogni giogo.

Salvo Vaccaro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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