Da "Umanità Nova"
n. 14 del 13 aprile 2003
La guerra divora se stessa
Dall'Iraq all'Afganistan: i fronti della guerra globale
Imparavamo a gran velocità. Prima non sapevamo che i morti valgono
oro quanto pesano.
(C. Wolf, Cassandra)
Nel 1991 durante "Desert Storm", secondo un rapporto di Greenpeace International,
tra gli iracheni i morti nella guerra del Golfo furono da 162 mila a 219
mila (di cui 100-120 mila militari), mentre secondo il Pentagono i militari
iracheni caduti sarebbero stati più di centomila. Le forze militari
Usa avrebbero invece avuto soltanto 148 morti, quelle inglesi 44 e quelle
saudite 29.
A distanza di dodici anni, in verità, queste cifre rimangono
tutte da confermare e, per quanto ci risulta, negli Stati Uniti non è
stato mai eretto un monumento coi nomi dei soldati Usa morti in quella
guerra, come quello che a Washington ricorda i 55 mila caduti del Vietnam.
Silenzio ancora più impenetrabile sulle decine di migliaia di
vittime tra i militari americani ed europei in conseguenza della cosiddetta
"sindrome del Golfo" o per effetto dell'uso di proiettili e granate con
uranio impoverito utilizzati in Iraq, Somalia e Kossovo (ufficialmente
confermato dai vertici militari Usa anche nell'attuale conflitto).
Per tali motivi l'attendibilità delle cifre riguardanti le perdite
umane subite in Iraq in queste settimane dalla coalizione capeggiata dagli
Usa è destituita di qualsiasi fondamento; così come da oltre
un anno avviene attorno alle effettive perdite riportate in Afganistan
dal contingente internazionale che, secondo alcune fonti non-governative,
ammonterebbero ad almeno 500, di cui 400 statunitensi, a fronte di almeno
4.000 vittime tra le popolazioni civili afgane.
Tutto questo, per chi pur senza voler essere un esperto conosce un minimo
le dinamiche di guerra, risponde semplicemente alla tragica realtà
di un conflitto che, seppur combattuto ad armi impari, implica anche per
gli aggressori ipertecnologici costi umani non trascurabili, nel momento
in cui dai bombardamenti con missili e bombe si passa ai combattimenti
di terra, al corpo al corpo.
L'immagine che infatti deve prevalere, per non turbare le opinioni pubbliche
occidentali, deve infatti essere quella di una guerra "vincente", con
un limitato numero di perdite tra chi combatte per "portare la democrazia".
Emblematico quanto scrisse un giornalista americano al termine della
guerra del '91: "La vittoria è giunta con una tale spietata rapidità
che, dalla parte del vincitore, è mancata del tutto l'esperienza
profonda del dolore legato alla perdita" (L. Morrow su Time Magazine)
Evidentemente questo è un punto debole per quel dominio globale
che sta ridefinendo con le armi la geopolitica degli interessi del capitale;
probabilmente perché, per quanto possa investire nella disinformazione
e nella propaganda, è ormai consapevolezza diffusa e generalizzata
che non siamo entrati in un ciclo di guerre che porteranno sicurezza,
libertà e democrazia, ma che stiamo ormai precipitando in una spirale
bellica il cui vero senso è da ricercarsi soltanto nelle oscillazioni
della borsa, nelle recessione economica, nella contesa mondiale per l'energia,
nella conquista di nuovi mercati.
E di fronte alla coscienza collettiva di una guerra combattuta per gli
interessi di pochi, la variabile costituita da alti livelli di perdite
umane diventa una contraddizione non facilmente ricuperabile, tanto più
in una civiltà in cui il rispetto del valore della vita è
di norma strumentalmente usato per giustificare la propria superiorità
etica e morale, al punto dall'aver inventato il controsenso della "guerra
umanitaria".
Questo ragionamento appare oggi centrale e decisivo nel momento in cui
le forze armate Usa e quelle dei loro alleati stanno per affrontare il
difficile campo di battaglia urbano di grandi città come Bassora
e Baghdad, senza avere ancora il controllo sul resto del territorio iracheno
costellato di luoghi-simbolo quali ad esempio Mosul, la città da
cui deriva la stessa parola "musulmano".
I comandi iracheni hanno giocato le loro carte nell'unico modo possibile,
dopo aver impegnato le proprie truppe in semplici azioni di retroguardia
e non curandosi neppure di far saltare i ponti per rallentare l'avanzata
Usa, attirando i nemici nel tunnel di Baghdad quasi come il 7mo Cavalleggeri
del gen. Custer a Little Big Horne.
Entrare in tali contesti comporta infatti un numero assai elevato di
morti da parte degli attaccanti e la trasformazione di una guerra convenzionale
in lotta casa per casa, guerriglia, attacchi suicidi e forse resistenza
popolare, in cui contro i "rambo" ad alta tecnologia anche un vecchio
fucile può diventare un'arma micidiale.
Una guerra destinata a protrarsi e ad incancrenirsi anche dopo una formale
vittoria sul campo e la conquista di ciò che rimane delle strutture
e dei centri di direzione del regime di Saddam Hussein.
Quanti morti possono permettersi i comandi militari, l'amministrazione
Bush e il "fronte interno"?
Tanto più che, come dimostrano i combattimenti e i soldati americani
morti in queste ultime settimane, l'altro fronte aperto - quello afgano
- sta richiedendo con urgenza un ulteriore impegno militare.
Di questo si parla poco, ma da qualche giorno nel sud dell'Afganistan,
dopo l'operazione "Valiant Strike" scattata in contemporanea all'aggressione
contro l'Iraq, è partita un'altra operazione non meno suggestivamente
denominata "Desert Lion", a dimostrazione di quanto siano azzardate le
strategie imperialiste.
Facile fare le pentole, altra cosa i coperchi.
KAS
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