archivio/archivio2003/un01/unlogopiccolo

Da "Umanità Nova" n. 14 del 13 aprile 2003

Alle radici del massacro
Non è per il petrolio



Gli sviluppi più recenti della crisi irachena confermano che gli obiettivi perseguiti dall'amministrazione USA nella sua decisione di rovesciare il regime del vassallo infido Saddam Hussein e di insediarsi nel martoriato paese mediorientale vanno ben al di là delle risorse energetiche dell'antica Mesopotamia. In queste settimane la parte maggioritaria del movimento per la pace si è lasciata disinformare dalla propaganda americana e ha accentuato la sua critica nei confronti della guerra incipiente sostenendo che questa sarebbe stata una mera "guerra per il petrolio". Questo non è vero, se il senso di quest'affermazione è quello di sostenere che gli Stati Uniti intendono occupare l'Iraq allo scopo di ampliare il proprio parco petrolifero e sostenere il consumo interno di oro nero.

Se questo fosse lo scopo della Junta (come la chiama Gore Vidal) insediata alla guida della superpotenza di Oltre Atlantico la guerra irachena sarebbe in assoluto uno spreco, dal momento che le risorse petrolifere (tuttora poco sfruttate) di un paese alleato e vicino come il Canada basterebbero e avanzerebbero a garantire la prevista progressione nel consumo USA da qui al 2050.

In realtà affermazioni di questo genere, oltre ad essere facilmente smontabili dalla propaganda di guerra, sono direttamente influenzate dagli stessi sostenitori delle avventure belliche americane che da un decennio diffondono il terrore tra le popolazioni occidentali agitando il fantasma del petrolio in via di scomparsa e della diretta minaccia allo stile di vita euroamericano, fondato sulla mobilità individuale tramite automobile e su uno spaventoso consumo energetico.

MA AGLI USA SERVE DAVVERO IL PETROLIO IRACHENO?

Il petrolio è ben lontano dall'esaurirsi e le nuove tecnologie estrattive consentono una sempre maggiore possibilità di trovarlo in profondità. La peste del secolo XX con le sue ben note conseguenze è lontana dall'esaurirsi ed è prevedibile che, senza il sovvertimento del modello di sviluppo attuale, continueremo per molti decenni a subire le conseguenze sanitarie dell'idea contemporanea di benessere.

All'interno di questo quadro gli Stati Uniti potrebbero garantire alla propria popolazione di continuare nel folle aumento del consumo di risorse energetiche senza doversi imbarcare in guerre di conquista assolutamente inutili da questo punto di vista e, inoltre, assurdamente costose per le tasche esauste del contribuente americano.

Intendiamoci, gli interessi petroliferi presenti all'interno dell'amministrazione Bush sono tali da permettere di pensare che il governo americano non possa che tenerne conto e orientare la sua azione in modo da concedere alle imprese di riferimento dei suoi uomini più rappresentativi il massimo profitto in tutte le aree petrolifere del mondo. Già sappiamo che la Exxon Mobil e la British Petroleum hanno avuto l'esclusiva (anche se una qualche forma di maquillage come la rifondazione dell'Iraq National Oil Company sarà necessario) per tutto quanto riguarda il settore dell'upstream petrolifero, ossia ricerca, produzione e strategia dei prezzi, mentre la prevista inclusione delle imprese russe e francesi è a rischio a seguito dello scontro in atto in sede ONU. La Halliburton Company (tra i cui proprietari spicca il vice presidente Cheney) invece avrà l'esclusiva sul downstream petrolifero, ossia la raffinazione, il trasporto e la commercializzazione dell'oro nero. Anche qui un maquillage dell'operazione sarà necessario ed è già deciso che la commercializzazione sul territorio iracheno sarà gestita dai vari alleati americani in loco: i Kurdi (sempre che l'incipiente conflitto con Ankara non li trasformi per l'ennesima volta da alleati in nemici soggetti a pulizia etnica), gli stessi turchi (che vantano un vecchio trattato con gli inglesi stipulato nel 1925 con il quale il paese di Ataturk acquisiva il diritto al 10% delle royalties sul petrolio iracheno per ripagarlo della perdita della zona di Mosul), e l'avida e rissosa opposizione irachena. Quest'operazione, però, non sarà indolore e costerà molti miliardi alle stesse corporation che dovranno farsi carico di trovare subito dopo la guerra almeno 30 miliardi di dollari per rimettere in efficienza la rete distributiva attualmente in pessime condizioni, e in prospettiva spenderne almeno dieci volte tanto per costruire in Iraq un polo petrolifero competitivo con quello saudita.

Come si può vedere, sicuramente un affare per le corporation americane, ma un affare dispendioso, ben lontano dal bengodi rappresentato in buona fede da buona parte del movimento per la pace in Italia come in Europa. Le motivazioni per le quali le imprese USA sono disposte a lanciarsi in quest'investimento non sono semplicemente economiche, dal momento che i loro attuali affari sono molto meno dispendiosi e problematici di quello iracheno, e le prospettive di sviluppo petrolifero in Africa (Guinea Equatoriale, Nigeria, Angola) dove è presente un petrolio di ottima qualità, non solforoso e di facile estrazione, per di più in paesi quasi tutti fuori dall'OPEC e fortemente dipendenti dagli aiuti USA per la normale amministrazione, sono tali da impedire di pensare che il petrolio iracheno sia vitale per il capitale americano.

Il ragionamento da fare in realtà è assolutamente inverso a quello semplicistico che vede gli americani pronti a fare la guerra perché interessati al petrolio iracheno; sono disposti ad interessarsi del petrolio iracheno perché sono decisi a fare la guerra al paese mediorientale e ad insediarsi al suo interno. Mai come oggi il petrolio ha perso la sua caratteristica di semplice risorsa energetica per la quale condurre guerre, colpi di stato e malversazioni, per assurgere alla qualifica di arma politica all'interno dello scontro per il dominio sulle reti finanziarie globali e più in generale sull'economia-mondo.

Quali sono, quindi, in sintesi gli obiettivi perseguiti dagli USA e dai loro capitali nazionali in questa guerra?

LA RISISTEMAZIONE DEL MEDIO ORIENTE

Dal punto di vista geopolitico (per quello geoeconomico rimando all'ultimo articolo da me pubblicato su UN) questi possono essere sintetizzati nella cancellazione del soggetto europeo dalla scena internazionale, nell'ulteriore accerchiamento di Russia e Cina (oggi alleati ma un domani possibili competitori in alcune aree del mondo) da parte di una corona di paesi vassalli che va dall'Estonia alla Bulgaria in Europa, dalla Turchia all'Asia Centrale ex sovietica in Medio Oriente e Dal Pakistan alla Corea del Sud in Estremo oriente, e nella risistemazione dello scenario mediorientale basato sulla supremazia di Israele (al quale sarà permesso di chiudere una volta per tutte la partita palestinese eliminando Arafat, annettendo gran parte dei Territori occupati e mettendo in atto una spaventosa pulizia etnica al confronto della quale quella balcanica risulterà uno scherzo) e della Turchia, mettendo in un angolo l'ex alleato saudita e normalizzando i paesi come la Siria sulla falsa riga dell'Egitto e della Giordania. Da questo punto di vista l'Iraq assume un'importanza estrema per la sua collocazione geografica. La sua presa permetterà agli USA di sostituire il vassallo perso nel 1979 con la rivoluzione iraniana e di destabilizzare il regime infido dei Saud.

La prossima probabile mossa per perfezionare questo progetto sarà quella di chiudere i conti con il regime iraniano, oltretutto colpevole di intrattenere buoni rapporti commerciali con i paesi europei e con la Russia, oltre che collaborare con la Cina nel campo militare. In questo senso bisogna segnalare come l'offensiva strategica americana vada di pari passo con il progetto di egemonia israeliana sul Medio Oriente. Da quasi due decenni, infatti, i settori conservatori dell'élite politica israeliana e di quella americana coltivano il progetto di risistemare l'area a partire dalla centralità del paese ebraico e dall'infeudamento ad esso dei paesi arabi.

In questa prospettiva i paesi arabi non possono permettersi di esprimere un'autonomia politica, commerciale o militare. Il trionfo di Israele a distanza di più di cinquanta anni dalla sua fondazione non deriva, naturalmente, dall'esistenza di un improbabile complotto "giudaico" ma dalla sua natura di paese europeo, fondato da coloni che si posero come avamposto dell'Occidente in un territorio strategico per le potenze che allora come oggi si spartivano il mondo. Oggi esistono istituti strategici comuni a Israele e USA che studiano la risistemazione del Medio Oriente e che hanno accelerato la loro azione a partire dal crollo del sistema sovietico, che ha tolto ai paesi nazionalisti del mondo arabo il loro "sindacato" di riferimento. La triste condizione dei palestinesi è figlia diretta del mutamento di rapporti di forza sottesi alla risistemazione in atto. Non diversamente la sorte di paesi come la Siria e l'Iran sospesi tra la distruzione e il vassallaggio nasce dallo stesso processo in corso.

L'EUROPA TRA FRAMANIA ED EUROAMERICA

Per quanto riguarda il primo obiettivo americano, quello riguardante l'annullamento dell'Europa come soggetto politico e prossimo possibile competitore globale, gli eventi recenti costringono a sospendere il giudizio sulla riuscita o meno dell'operazione americana.

Da un lato gli Stati Uniti e la Gran Bretagna sono riusciti a spezzare il continente e l'Unione Europea tra quelle che Limes (la rivista italiana di geopolitica) chiama "Fra mania" ed "Euroamerica", isolando tedeschi e francesi i quali hanno ricevuto la solidarietà esclusivamente del Belgio, dell'insignificante Lussemburgo e la simpatia di Grecia e Finlandia. Il resto del continente, pur tra mille distinguo, si è schierato con gli USA e la Gran Bretagna rifiutando al nucleo duro europeo il ruolo di guida politica e militare del continente. Una sconfitta secca per Parigi e Berlino.

Questa sconfitta, però, inizia ad essere compensata sul piano internazionale dall'acuto isolamento anglo-americano nei confronti di Russia, Cina e dei paesi del sud del mondo che, in sede ONU, stanno assumendo un'importanza assolutamente inimmaginabile solo alcuni mesi fa. La creazione nei fatti di un asse tra Francia, Germania e Russia (al quale aggiungere la Cina il cui silenzio dice più di mille parole) capace di fungere da polo di attrazione per i paesi direttamente minacciati dall'aggressività angloamericana è un fatto nuovo del quale si deve tenere conto.

USA e Gran Bretagna, sicuri vincitori nelle sabbie mesopotamiche e distruttori dell'Unione Europea, rischiano di subire un rovescio diplomatico di primo ordine all'interno dell'ONU e delle sedi internazionali. Inoltre gli avvenimenti di queste settimane non potranno che portarsi dietro pesanti conseguenze all'interno della NATO che potrebbe anche sciogliersi o diventare un guscio vuoto con l'approssimarsi di una nuova guerra fredda che, stavolta, vedrebbe una parte consistente delle "democrazie occidentali" schierate in opposizione all'asse Londra-Washington. Insomma, forse non è ancora la fine dell'Impero americano ma il mondo sembra avere imboccato la strada che porta verso un ordine multilaterale. Se questa ipotesi venisse confermata dai fatti ci troveremmo di fronte a un rapido cambiamento nei paesi europei per quel che concerne la composizione delle classi dominanti, la composizione della spesa pubblica e l'importanza del settore militare nella composizione sociale. Oggi nessun paese europeo esprime una classe dominante e una struttura sociale adatta a un confronto di lungo periodo con una potenza di peso equivalente o superiore.

Se "Fra mania" vorrà percorrere questa strada i mutamenti sociali che produrrà al proprio interno non saranno cambiamenti da poco e investiranno ogni ambito della vita sociale, producendo una società militarizzata, a forte spesa militare e proiettata al confronto esterno. Le conseguenze sulle libertà e sulla dialettica di classe sono, credo, immediatamente immaginabili.

La situazione più drammatica, però, spetterà a paesi come il nostro o la Spagna che hanno il torto geopolitico di trovarsi sulla linea del fronte tra "Fra mania" ed "Euroamerica", come nella seconda metà del XX secolo si trovarono al confine tra l'occidente americano e il mondo sovietico. Il blocco del sistema politico, il contenimento sociale a suon di bombe e stragi e la lotta all'interna delle classi dominanti condotta con omicidi eccellenti e minacce di colpo di stato ne sono state le conseguenze. Possiamo tranquillamente immaginare che una prossima guerra fredda intereuropea produca le stesse conseguenze della prima. E a questo dovremo prepararci, iniziando a lavorare per impedire che il movimento per la pace si trasformi in massa di manovra per le classi dominanti "fra maniche" in cerca di legittimazione nel loro scontro con l'impero americano.

Stefano Capello

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Contenuti  UNa storia  in edicola  archivio  comunicati  a-links


Redazione fat@inrete.it  Web uenne@ecn.org  Amministrazione  t.antonelli@tin.it