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Da "Umanità Nova"
n. 18 del 18 maggio 2003
La strana guerra
Il conflitto iracheno tra tragedia e farsa
Alla luce della fine delle operazioni belliche in grande stile in Iraq
è necessario tracciare alcune considerazioni sulla guerra appena
finita e sullo stato delle relazioni internazionali, allo scopo di iniziare
a ragionare sulle possibilità concrete di un'azione politica e
sociale tesa al sovvertimento delle attuali classi dominanti.
UNA STRANA GUERRA
La guerra in Iraq è stata in modo evidente una farsa, non per
i disgraziati che hanno lasciato la pelle sotto il fuoco angloamericano
e sotto le bombe degli alleati, ma per le classi dominanti americana ed
irachena. In un recente articolo lo storico militare Paul Keegan segnalava
come mai nessun esercito avesse compiuto tanti errori in una campagna
come quello iracheno nel corso di questa guerra. Le truppe d'élite
sono state ammassate attorno Baghdad e Tikrit, mentre Bassora e il sud
del paese sono state affidate a divisioni di secondo piano, armate in
modo approssimativo (non avevano nemmeno quei visori notturni che in occidente
vengono venduti dalle riviste specializzate a non più di 140 euro)
e dotate solamente di una certa animosità nel combattimento. Inoltre
queste stesse truppe sono state ammassate nelle città come Bassora
rendendone certo un po' più difficile la presa ma spalancando vere
e proprie autostrade all'avanzata via terra delle truppe alleate. Le molte
paure (o speranze) alimentate dagli stessi americani prima della guerra
si sono rivelate infondate: non c'è quasi stata guerriglia nelle
città, fatti salvi i casi di Mosul e Kirkuk dove la consegna delle
due città ai peshmerga curdi ha acceso un meccanismo di vendette
e risoluzioni di antichi conti probabilmente lungo da far cessare; i pozzi
di petrolio non sono stati fatti saltare e l'unica catastrofe ecologica
che si palesa è quella causata dalle bombe ad uranio impoverito
lanciate a piene mani dalla RAF e dall'aeronautica americana.
Infine stiamo assistendo alla patetica sceneggiata dell'autoconsegna
alle truppe americane della maggior parte del quadro dirigente del regime
di Saddam; escludendo che tutti costoro siano improvvisamente diventati
stupidi, se ne desume che il viaggio di Tareq Aziz a Roma sia servito
a ben altro che a far visita al papa, ma sia piuttosto stato il momento
in cui il numero due iracheno ha trattato la resa del regime con gli angloamericani.
È del tutto chiaro che la stessa fuga di Saddam sia stata preparata
dagli americani con la complicità di qualche servizio segreto nominalmente
nemico come quello russo o quello cinese.
La conclusione di questa prima considerazione è la virtualità
delle guerre che la potenza imperiale americana sta svolgendo nell'ultimo
decennio. Virtualità che non riguarda certo gli effetti subiti
dalla popolazione civile ma quelli riguardanti leadership terzomondiste
tanto autoritarie e feroci con la propria popolazione, quanto pavide e
vigliacche nei confronti del nemico occidentale. Saddam ha approfittato
della situazione per ritagliarsi il ruolo del "nuovo Saladino", feroce
nemico dei crociati e difensore delle masse islamiche. In realtà,
mentre dichiarava la sua risolutezza al mondo arabo-islamico, trattava
sottobanco la sua sopravvivenza con il nemico giurato, garantendosi probabilmente
una pensione dorata in qualche luogo fuori mano.
Tutto ciò per l'ottimo motivo che l'Iraq non era assolutamente
in grado di resistere a un assalto serio condotto dalla massima potenza
mondiale (ma probabilmente anche qualcuno dei suoi vicini sarebbe stato
in grado di invadere il paese con buone speranze di infliggere sconfitte
pesanti all'estenuato regime iracheno), ma una sceneggiata faceva comodo
alle due parti: agli americani (tuttora visibilmente non pronti a una
guerra vera con migliaia di morti tra le proprie fila) per recitare la
parte dei gloriosi vincitori di un regime feroce e armato fino ai denti,
al clan di Saddam per permettersi una gloriosa uscita di scena e l'assunzione
nell'empireo degli eroi per masse arabe sempre più frustrate e
prive di una speranza possibile di emancipazione.
Le considerazioni svolte su UN dai compagni di Comidad rispetto a un
prossimo assalto alla Siria mi sembrano del tutto confermate da quanto
successo in Iraq: gli Stati Uniti si decidono a giocare le partite decisive
nelle loro guerre solamente quando sono ben sicuri di non trovare alcuna
resistenza armata degna di questo nome di fronte a loro. A questo scopo
utilizzano prima la guerra aerea per devastare un paese e distruggerne
le potenzialità belliche e di sviluppo potenziale, in secondo luogo
utilizzano le agenzie internazionali per disarmarlo in modo definitivo,
in terzo luogo mettono in piedi guerre totalmente sbilanciate a loro favore
per chiudere definitivamente la partita. Per assicurarsi la riuscita sicura
del piano, tra l'altro, non disdegnano di comprarsi letteralmente le classi
dominanti nemiche garantendogli una tranquilla pensione in cambio del
massimo di arrendevolezza. L'unico al quale in questi anni è andata
male è stato Milosevic, il quale ha avuto la cattiva idea di perdere
le elezioni e di farsi defenestrare dal suo stesso esercito. Ridotto nell'angolo
e senza più potere in patria è diventato il facile obiettivo
di una vendetta a termine utilizzata dagli USA per dimostrare il loro
ruolo di gendarmi globali.
UN SOLO IMPERO, O NO?
Questa guerra ha segnato il trionfo della concezione unilateralista
del governo mondiale e questa soluzione è stata cercata in modo
preciso da Washington. Francia, Germania e Russia si sono opposte alla
guerra per cercare di affermare il loro buon diritto a essere consultate
dagli americani almeno formalmente prima di qualsiasi mossa USA, ma era
evidente il loro desiderio di essere associate in un secondo momento al
sacco di Baghdad, dal momento che, a guerra decisa, non hanno esitato
a concedere permessi di sorvolo e disposizione delle basi agli angloamericani.
In realtà è stata la stessa amministrazione di Oltreatlantico
a decidere di portare il dissenso fino al punto di rottura, allo scopo
di far saltare qualsiasi discorso multilateralista, di spaccare in modo
irrimediabile l'Unione Europea e di favorire l'insediamento dei propri
capitali all'interno dell'area dell'euro. La recente svendita della FIAT
Avio al fondo americano Carlyle (tra i proprietari del quale si annoverano
i familiari di mezza amministrazione americana) è solo l'ultimo
esempio della colonizzazione americana dell'economia degli alleati europei
(ma fatti simili avvengono anche in Estremo Oriente, in Corea come in
Giappone), con la complicità di amministrazioni come quella italiana
convinte di poter sopravvivere solamente all'interno dell'ombrello dell'economia
globale americana.
Impiantarsi in Iraq senza e contro gli alleati europei vuole dire per
Washington controllare la principale fonte energetica di questi stessi
paesi e della Cina, spazzare ogni ostacolo alla determinazione del prezzo
del barile (contrariamente a quello che si pensa, per tenerlo alto, in
modo da guadagnarci, salvo magari abbassarlo temporaneamente per rovinare
la rendita petrolifera di Arabia Saudita e Iran) e soprattutto diventare
il controllore degli scambi commerciali tra Europa e Asia. La vecchia
ossessione dell'imperialismo inglese per il corridoio euroasiatico si
è completamente trasferita nell'imperialismo americano di questi
anni: chi controlla le fonti energetiche e i corridoi commerciali dei
propri rivali si è assicurato un netto vantaggio comparato su di
loro e si prepara ad assorbirne le economie.
Da questo punto di vista gli americani mostrano di avere ben chiara
la situazione odierna mentre gli europei cercano ancora di giocare con
le regole dell'imperialismo unitario codificate nel secondo dopoguerra.
A differenza di allora, però, l'economia americana non si pone
più come coordinatrice dell'insieme dell'economia mondo capitalistica;
lo scontro tra diversi poli capitalistici, tra le loro reti finanziarie
e commerciali, ripreso in sordina dopo il quinquennio della crisi del
dollaro (1968-1973), è esploso in tutta la sua vigoria all'indomani
della fine dell'URSS con la rimondializzazione dell'economia capitalistica.
Dopo l'89 le vecchie posizioni di rendita (come quella per intenderci
del regime DC-PSI in Italia o quelle dei sultanati arabi) hanno iniziato
a saltare, mentre le classi dominanti dei vari paesi capitalistici si
impegnavano in una durissima contesa produttiva, commerciale, ma soprattutto
finanziaria. La crisi di valorizzazione del capitale iniziata nel corso
degli anni Sessanta del secolo trascorso e dipendente in primo luogo dall'evidente
decrescere dei profitti nel campo produttivo e commerciale a seguito di
un quarantennio di sviluppo del consumo senza pari nella storia umana
(in italiano corrente: se hai dato a ogni famiglia occidentale una macchina
e una quantità infinita di elettrodomestici, è normale che
il prezzo di questi beni decresca e che il loro mercato diventi per lo
più di sostituzione), ha infatti progressivamente spostato l'attenzione
capitalistica verso la valorizzazione finanziaria, ossia verso quel modo
di fare soldi basato sulle scalate finanziarie, sulle speculazioni sulle
monete e sulle "scommesse" sul valore futuro di dati beni. In questo non
vi è niente di nuovo dal momento che gli "stadi supremi" del capitalismo
non esistono, ed esiste piuttosto un ricorrere di fasi differenti della
storia di questa formazione sociale, nelle quali di volta in volta prevale
la valorizzazione produttiva e commerciale oppure quella finanziaria.
La conseguenza del prevalere di questa seconda forma di valorizzazione,
però, è particolarmente interessante al fine della lettura
della fase storica nella quale ci è dato vivere: prevalenza della
finanza vuole dire affannosa ricerca di capitale liquido da attingere
sui mercati mondiali dove staziona il capitale mobile in cerca di valorizzazione.
Le operazioni finanziarie, infatti, necessitano di poter disporre di sghei
con abbondanza e facilità. Una delle conseguenze è quella
dell'avvio di una redistribuzione dei redditi dal lavoro al capitale su
base mondiale in modo da garantire ai dominanti la liquidità necessaria
per la guerra finanziaria, ma l'altra (a suo modo ben più importante)
è quella del venir meno di un coordinamento dell'attività
mondiale capitalistica: se la crescita del valore è data dalla
finanza, non può più esistere un coordinamento produttivo
e commerciale dell'economia mondo, perché quanto si è venuto
ad affermare è la guerra di tutti contro tutti, dove le alleanze
durano lo spazio di un mattino.
Corollario di questa situazione è l'affievolirsi delle solidarietà
di campo e la ricerca della prevalenza della propria economia su quella
di altri dominanti. A questo scopo diventa essenziale il controllo dello
spazio politico e amministrativo di ogni circoscrizione territoriale capitalistica
(in altre parole degli stati) in modo da usarle nella guerra economica
complessiva; così facendo, però, si introduce la guerra
politica e diplomatica all'interno dello scontro economico, e si prospetta
la possibilità di utilizzare le armi vere e proprie per decidere
dei vari conflitti tra le classi dominanti.
La situazione odierna vede quindi uno scontro a tutto campo tra i capitalismi
centrali con un notevole contributo di quelli semicentrali come quello
italiano, non adeguatamente supportato da uno scontro tra stati sul terreno
diplomatico e su quello della guerra vera e propria. Le motivazioni di
questo stallo sono molte e vanno dal livello di spesa militare (incredibilmente
differente tra gli USA e il resto del mondo) alla maggiore solidità
del capitalismo americano rispetto ai suoi concorrenti, ma in ultima analisi
possono essere fatte risalire alla diversa composizione delle classi dominanti
tra gli Stati Uniti e i loro concorrenti economici. In Europa e in Giappone
non esiste infatti una classe dominante risultata dalla fusione tra la
classe imprenditoriale e quella militare che abbia la potenza e l'influenza
di quella americana. Le ragioni di questo fatto dipendono dalla virulenza
della lotta di classe in Europa nel secondo dopoguerra, dalla vicinanza
con il competitore sistemico Unione Sovietica (con l'attrazione che questo
esercitava verso i dominati europei) e dallo stato di distruzione nel
quale versavano Europa e Giappone dopo un trentennio di guerre combattute
sul loro territorio. In definitiva negli stati europei e giapponesi si
è affermata una classe dominante più interessata a preservare
la coesione sociale e a sviluppare l'economia produttiva che a muoversi
in modo aggressivo all'interno della scena dell'economia mondo. Questa
scelta è stata possibile finché è funzionato il modello
di imperialismo unitario a guida americana, incaricato dello sfruttamento
del Terzo mondo e dell'aggressione al competitore sistemico sovietico.
Venuto meno quest'ultimo, e soprattutto venute meno le condizioni economiche
che permettevano a tutte le classi dominanti l'accesso alle risorse e
ai mercati mondiali sotto l'egida americana, ha iniziato ad incrinarsi
la sostanziale pacificità interna di quel modello. Oggi siamo ben
lontani dal veder emergere uno stato o un gruppo di stati in grado di
competere su questo terreno con gli Stati Uniti, l'epoca dell'imperialismo
unitario è però già finita e segnali di nuove tendenze
sono sempre più visibili come dimostra anche la recente proposta
di Francia, Belgio, Germania e Lussemburgo di costituire un esercito europeo
sganciato dagli USA e soprattutto senza il contributo dei vassalli euroamericani.
La transizione sembra essere iniziata ma non sarà certo breve e
sarà sicuramente segnata da un alto livello di involuzione autoritaria
e militarista degli stati europei e della messa al lavoro dell'intera
società per prepararla a una possibile guerra.
Giacomo Catrame
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