Da "Umanità Nova"
n. 18 del 18 maggio 2003
Dibattito referendum 3:
Di qua o di là
Il referendum, non c'è che dire, ha il suo fascino. Il fascino
delle scelte nette, quelle in cui si sta o di qua o di la: si o no, testa
o croce, mare o montagna, liscia o gassata, Coppi o Bartali, Beatles o
Rolling Stones, Mazzola o Rivera.
Questo fascino viene, evidentemente, subìto anche da qualche
anarchico, visto che in rete girano alcuni appelli, firmati anche da qualche
compagno noto, che spiegano perché alcuni anarchici andranno a
votare al referendum sull'estensione dell'art. 18 dello statuto dei lavoratori
(quello che obbliga alla riassunzione del lavoratore licenziato ingiustamente)
alle imprese con meno di 15 dipendenti.
Diciamolo subito: per me questi compagni sbagliano.
Ognuno di noi può, ovviamente, permettersi di fare le scelte
che crede (purché non coinvolga altri), ma trattandosi di appelli
che invitano i compagni ad andare a votare al referendum è opportuno
che si apra un dibattito che possa chiarire meglio le idee a tutti.
I motivi politici per cui questo referendum è stato proposto
sono noti: nel corso delle lotte dell'autunno scorso contro il tentativo
padronale di permettere l'arbitrio selvaggio nella gestione dei rapporti
di lavoro, alcuni partiti (Rifondazione e settori della sinistra interna
all'ulivo) hanno cercato di riguadagnare una visibilità completamente
eclissata dal ruolo assunto da Sergio Cofferati.
Pensavano, con il referendum, di evidenziare la posizione contraddittoria
del centro sinistra (e di Cofferati stesso) sull'argomento e di assurgere
a unici, coerenti, interlocutori dei lavoratori.
La storia dei referendum in Italia avrebbe dovuto insegnare ai promotori
la pericolosità di una scelta del genere: quando si votò,
nel 1985, al referendum sui tre punti di scala mobile (circa 20.000 lire
dell'epoca) rapinati dal governo Craxi, ci si attendeva una vittoria dei
"Si" alla restituzione (in fondo si trattava di far avere un aumento di
stipendio a tutti i lavoratori italiani), incredibilmente, dopo una campagna
catastrofista condotta dal governo, vinsero i "No".
Anche dal punto di vista della teoria democratica un referendum sulle
condizioni dei lavoratori è un errore palese: si consente di scegliere
su cose che riguardano due soggetti sociali (lavoratori e datori di lavoro)
ad una platea molto più vasta che deciderebbe solo per sentito
dire. È come se facessero votare tutti gli italiani sul colore
del municipio di Pinerolo.
Da un punto di vista anarchico la scelta di spostare il conflitto dai
posti di lavoro alle urne è ancora più sbagliata, visto
che toglie ai lavoratori il diritto a decidere della propria vita con
le lotte.
Non vorrei però contestare la scelta propugnata da questi compagni
sul piano teorico: io credo che, oltre che teoricamente, il metodo anarchico
dia buona prova di sé anche sul piano pratico. E l'analisi degli
esiti delle modifiche proposte con un referendum è, secondo me,
una conferma al principio anarchico secondo il quale è la lotta
e non il voto che decide.
Che un referendum possa effettivamente cambiare le cose è infatti
una pia illusione. L'esempio canonico è il referendum sull'abolizione
del finanziamento pubblico dei partiti, vittorioso a furor di popolo (con
il 90% dei votanti contrario alla legge), che fu lasciato completamente
disatteso (come all'epoca prevedemmo facilmente nei consueti articoli
astensionisti). L'unico risultato che ottenne fu di modificare la forma
(cioè la legge), ma non la sostanza (il fatto che i partiti prendessero
i soldi): anzi con quella riforma aumentò l'ammontare del finanziamento
stesso.
Fa ancora ridere l'abolizione del ministero dell'agricoltura (sostituito
dal ministero delle politiche agricole), o l'abolizione della Jervolino-Vassalli
sulle tossicodipendenze: anche qui l'unico risultato fu di modificare
la legge per lasciare le cose sostanzialmente inalterate.
Anche nel caso del nucleare, dove l'effetto della vittoria del "Si"
sembra esserci stato, è bene ricordare che i tre quesiti (la partecipazione
italiana a consorzi internazionali che promuovevano iniziative nel campo
dell'energia nucleare; il contributo dello Stato agli enti locali che
avessero accettato la localizzazione delle centrali nucleari; il parere
degli enti locali, che da consultivo doveva divenire vincolante) avrebbero
potuto facilmente essere aggirati e le centrali nucleari avrebbero potuto
essere comunque realizzate, se non ci fosse stata quella gigantesca mobilitazione
popolare - fatta di blocchi e cortei - che mise in crisi quel modello
di produzione dell'energia. In particolare mi piace ricordare che, dopo
aver dato indicazione di non votare ai referendum, noi partimmo nella
notte di domenica 9 novembre (a urne ancora aperte) per andare a bloccare
(quale che fosse stato l'esito dei referendum) il lunedì mattina
i lavori alla centrale nucleare di Montalto di Castro.
L'inutilità del referendum non c'è solo quando vincono
i "Si" all'abrogazione di una legge e la vittoria viene disattesa, c'è
anche quando vincono i "No" e la legge viene cambiata lo stesso.
Sull'art. 18 si è già votato, il 21 maggio del 2000, e
la modifica, proposta dai radicali, che volevano rendere tutti i lavoratori
licenziabili, fu respinta: i due terzi del 30% che andò a votare
si espressero contro questa modifica. Ciò nonostante Berlusconi
non ebbe alcuna remora a provare a modificarlo lo stesso, e nello stesso
senso bocciato dal referendum.
Anche quando si votò nel referendum sui tre punti di contingenza
prima ricordato, la Confindustria, a urne ancora chiuse, decise di denunciare
comunque l'accordo sulla scala mobile.
Insomma, senza voler fare la storia di tutte le 53 volte che in Italia
si è andati a votare al referendum, l'unico risultato è
stato quello di realizzare un gigantesco sondaggio d'opinione, concluso
il quale il parlamento continuava a fare quello che gli pareva e piaceva.
Non si vede perché in quest'occasione debba accadere qualcosa
di diverso da quanto accaduto finora: se c'è la volontà
politica di proseguire nell'attacco al diritto dei lavoratori al reintegro,
quest'attacco proseguirà quale che sia l'esito del referendum.
Se anche al referendum vincessero i "Si" con una larga maggioranza, non
è difficile immaginare, fin d'ora, una campagna stampa sulla necessità
di riordinare tutta la materia del rapporto di lavoro con una nuova legge.
Mi auguro che non ci sia nessun compagno che pensi che al governo manchino
i mezzi per fare una campagna elettorale terroristica sui rischi per l'economia
derivanti da una vittoria del "Si" al referendum, solo che percepisse
questa vittoria come remoto rischio per i propri progetti politici.
Provino a riflettere i compagni che danno l'indicazione di votare "Si"
sulle conseguenze della loro azione, non pensano che la stessa credibilità
degli anarchici, faticosamente e tenacemente acquisita in anni di lotte
tra i lavoratori, rischierebbe d'essere buttata via d'un soffio con questa
posizione elettoralista?
Migliaia di compagni anno dopo anno hanno dato il loro tempo per far
penetrare un minimo di simpatia per le idee libertarie tra i lavoratori
più coscienti e più radicali. Questa simpatia rischia di
non resistere a qualche minuto di illusione elettoralista, perché
così è quando vi sono la carne ed il sangue degli uomini.
Come vi giustificherete quando i lavoratori vi verranno a chiedere conto
dell'inutilità del loro voto?
Non avvertono i compagni una eccessiva fiducia nel meccanismo di funzionamento
delle istituzioni in queste loro posizioni?
Il Conte Tacchia della Fai di Roma
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