Da "Umanità Nova"
n. 18 del 18 maggio 2003
Dibattito referendum 4:
Un ostacolo da superare
È mia opinione che un confronto di idee sia tale se definisce bene
il suo oggetto e permette, di conseguenza, di definire delle posizioni
chiare e verificabili.
Naturalmente sarebbe ingenuo pretendere che il confronto politico possa
avere, di norma, il rigore e la precisione di una discussione di carattere
scientifico sia perché mette in gioco convincimenti profondi, riferimenti
simbolici, considerazioni contingenti che per la natura stessa del suo
oggetto sovente mutevole e complesso e, comunque, tale da non permettere
facilmente definizioni rigorose.
È mia impressione che l'attuale discussione in campo anarchico
o, meglio, quanto ne conosco sull'opportunità di votare sì
in occasione del referendum sull'articolo 18 sconti le difficoltà
che segnalavo.
In estrema sintesi, alcuni compagni, pur mantenendo le critiche di fondo
alla pratica referendaria in genere e quelle specifiche alla scelta del
PRC di puntare sul referendum, ritengono che sia opportuno votare sì
per, diciamo così, ridurre il danno che farebbe al movimento dei
lavoratori una vittoria secca del no. Se, poi, consideriamo che, probabilmente,
vi sarà una scelta astensionista strumentale dello stesso fronte
del no sul modello dei referendum sui buoni scuola in Veneto e Liguria,
appare evidente che la divisione fra "riformisti" e "rivoluzionari" non
passa certo lungo questo discrimine.
Quali sono, o sarebbero, i rischi legati a questa scelta? Tralascio
le spiritosaggini, diciamo così, di alcuni compagni che sembrano
essersi assegnati il ruolo di guardiani della vera fede e cerco di segnalare
quelli che appaiono tali da un punto di vista razionale:
- Una scelta del genere ci farà apparire schiacciati sulle posizioni
dell'estrema sinistra statalista e a poco serviranno i distinguo sulle
ragioni della nostra scelta.
- La difesa, per di più praticata nelle urne, di un astratto
diritto non a nulla a che vedere con l'azione diretta che pure propugniamo.
Entrambe le considerazioni mi sembrano sensate nel senso che sollevano
dei problemi reali. È effettivamente difficile, mentre ci si schiera
per il sì, porre l'accento sul fatto che solo la mobilitazione
diretta dei lavoratori può modificare il quadro sociale e rovesciare
l'attuale tendenza alla distruzione dei diritti minimi dei lavoratori
stessi.
Vorrei, sommessamente, fare però rilevare un fatto. Facile o
difficile che sia sostenere il punto di vista dell'autonoma iniziativa
di classe in questa partita, è un fatto che l'azione diretta è
una cosa seria. Non è, nonostante gli esercizi letterari che possiamo
dedicarle, il prodotto di una predicazione da anime belle. Che cos'è,
in fondo, l'irrompere sulla scena dell'autonoma spontaneità della
classe subalterna? È, per usare una celebre definizione, un eccesso
degli effetti rispetto alle cause, la definizione di pratiche collettive
di emancipazione, una trasformazione radicale della vita quotidiana.
Certamente, la propaganda delle idee libertarie e la militanza dei compagni
può influenzare le esperienze di azione che si sviluppano sul terreno
dell'autonomia di classe ma sarebbe una prova di singolare presunzione
il ritenere che l'autorganizzazione delle lotte sia lo sviluppo lineare
della nostra azione politica e sociale.
E se è così, ne consegue che le donne e gli uomini che
sviluppano pratiche di autorganizzazione modificando se stessi e il contesto
nel quale vivono lo fanno a prescindere o, almeno, sostanzialmente non
sulla base della loro formazione politica ma ponendola prima nei fatti
e poi sul piano della visione del mondo in discussione.
Rispetto a quest'ordine di problemi, il voto al referendum ha, con ogni
evidenza, un'importanza limitata.
Su di un piano più immediato, su di un terreno che non abbiamo
scelto, ma possiamo scegliere sempre il nostro terreno di azione?, la
questione è sin banale: riteniamo o meno che la difesa di alcuni
diritti anche dal punto di vista giuridico sia importante?
Risparmio ai lettori, per mancanza di spazio e per rispetto dell'intelligenza
dei compagni, la scontata lista dei cosiddetti compromessi che caratterizzano
l'azione dei compagni impegnati sul piano sociale e sindacale. Lo faccio
sia perché mi parrebbe pleonastico ricordarli che perché
non li ritengo, a rigore, compromessi almeno nel senso negativo del termine.
Le libertà delle quali godiamo, infatti, sono il prodotto di lotte
dure e, a volte, sanguinose e ratificano un rapporto di forza. Si danno
dentro il quadro statale e capitalistico, questo è evidente, ma
nessun militante che io conosca invoca il pieno dispotismo statale come
condizione favorevole alla sovversione.
Naturalmente, e lo ripeto per chiudere questa riflessione, non penso
affatto che con il referendum si giochino le sorti del movimento di classe,
per molti versi è un ostacolo da superare più che un'occasione
da cogliere ma ritenere che un ostacolo compaia perché si decide
di non rilevarne la presenza non mi sembra la scelta migliore.
Cosimo Scarinzi
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