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Da "Umanità Nova" n. 19 del 25 maggio 2003

Mappa di un bantustan
Israele/Palestina: road map



Grande enfasi è stata data sui giornali alla Road Map che Usa, Ue, Onu e Russia hanno presentato lo scorso 30 aprile ai governi israeliani e palestinesi (Sharon e il neo nominato Abu Mazen, già vecchio sodale di Arafat nonché protagonista degli Accordi di Oslo del 1993). Non siamo allo squillo di fanfare, come ai tempi di Clinton e Rabin a Camp David, ma la mossa all'indomani della cessazione delle ostilità belliche in Iraq riporta alla memoria il passo compiuto da Bush padre alla fine della I guerra del golfo contro Saddam, quando per compensare l'iperpresenza militare americana in Medio Oriente, diede avvio ai Negoziati di Madrid sul conflitto arabo-israeliano (dove Arafat e palestinesi "tunisini" non erano protagonisti in quanto la delegazione arabo-giordana era formata da palestinesi dei Territori occupati: Abdel Shafi, Hana Ashrawi, Feysal Hussein ed altri), finiti in un nulla di fatto perché scavalcati dagli accordi sotterranei ad Oslo diretti tra Abu Mazen appunto e Peres.

La Raod Map è una cornice a tappe sulla risoluzione del conflitto più violento tra palestinesi e israeliani che ha comportato, dalla militarizzazione della II Intifada all'indomani del 20 settembre 2000, quando una provocatoria passeggiata di Sharon, allora semplice leader dell'opposizione, ma avallata dall'allora premier Barak, sulla Spianata della Moschea, luogo sacro agli arabi, causò l'intervento dell'esercito per sedare la rivolta indignata della popolazione con alcune decine di morti e feriti. Da allora, tre quarti delle vittime sono palestinesi e un quarto israeliani, ma i danni subiti dall'economia e dal turismo israeliano forse porterebbe a più miti consigli il governo di centro-destra di Sharon, sebbene il premier da anni insegua la strategia politica di sottomissione dei palestinesi per via militare, almeno sin dal 1992 quando era ministro delle infrastrutture.

Le tre fasi della Road Map prevedono i passaggi logici necessari per arrivare a un accordo di pace che, tuttavia, non comporta alcun impegno di contenuto rispetto a passaggi cruciali, che il Quartetto di garanti lascia alle trattative asimmetriche tra le parti: acqua, rapporti demografici, diritto al ritorno dei profughi arabi (dal 1948 in poi); nulla si dice poi su Gerusalemme, capitale dei due stati.

La I fase, calda e attuale, mira al sostanziale smilitarizzazione dell'Intifada palestinese, sebbene il nuovo governo palestinese non abbia "imbarcato" quanto meno Hamas nel governo, né può pensare di smilitarizzare le fazioni armate, tra cui quelle pure di Al Fatah, componente principale dell'Olp, se non al prezzo di una guerra civile. A fronte di tale impegno, Israele dovrebbe congelare gli insediamenti e sgomberare le aree già palestinesi secondo Oslo, rioccupate dal 28 settembre 2000, ossia tutti i territori (eccetto Gerico) e farsi sostituire da una forza di sicurezza palestinese, comprese le tre branche dei servizi segreti, ricollocati sotto il Ministero degli Interni retto ad interim da Abu Mazen ma diretti da M. Dahlan, uomo "americano" interlocutore del capo della Cia Tenet ai tempi in cui Tenet legava le missioni di polizia congiunte arabo-palestinesi; peccato che in questi anni Israele abbia smantellato sistematicamente quei corpi militari di stato che dovrebbero prendere il posto delle truppe dell'IDF, l'esercito israeliano.

I palestinesi dovrebbero poi reiterare il diritto di Israele ad esistere come stato sicuro e in pace con i propri vicini arabi, mentre Israele dovrebbe inequivocabilmente impegnarsi per una soluzione bistatale alla questione palestinese, senza però ricambiarne il diritto all'esistenza...

La II fase (giugno-dicembre 2003) dovrebbe dar luogo alla Conferenza internazionale garantita dal Quartetto, ma gli israeliani già hanno fatto sapere che si fiderebbero solo degli americani, che lancerebbe i vari dossier di merito sui problemi, tra cui appunto il non-diritto dei profughi al ritorno in cambio del loro diritto simbolico ad essere cittadini palestinesi (sono quasi 4 milioni in giro per il mondo, e altererebbero il rapporto demografico ebrei-arabi in Israele che viene dato alla pari entro pochi anni, ammesso comunque che palestinesi affermati all'estero vogliano retrocedere socialmente ritornando in una patria distrutta e degradata da oltre cinquant'anni di conflitto e occupazione militare e sociale).

Il rafforzamento delle istituzioni palestinesi in senso democratico dovrebbe consentire di giubilare definitivamente Arafat consentendo quel ricambio generazionale invocato da tutti, mentre Israele dovrebbe impegnarsi a risolvere i contrasti con i paesi arabi vicini (Libano e Siria innanzitutto) facilitando così il piano saudita di riapertura della fiducia araba nei confronti dell'arcinemico ebraico (business, zone commerciali aperte, libero scambio industriale, ecc.).

L'ultima fase 2004-05 dovrebbe segnare fase finale del consolidamento della pace senza violenza, la formazione solenne dello stato palestinese che passa dai confini provvisori con cui caratterizza le sue istituzioni nella II fase ad un vero proprio stato con continuità territoriale (quindi prima può restare un bantustan, come prevede il vecchio piano Sharon del 1992...), sancito da una ennesima Conferenza internazionale che sancirebbe altresì la piena integrazione israeliana nella realtà araba del Medio oriente.

La Road Map è una cornice al pari di Oslo che finge di non tenere conto della dura realtà dei fatti sul campo, a partire dal 2000 sino ad oggi, con nuove forze in campo palestinese, con nuovi contesti geopolitici nella regione, con l'unilateralismo americano che usa le istituzioni ed il concerto internazionale fin quando serve, con l'asse turco-israeliano nel frattempo costruito, con il degrado ulteriore dell'economia e della società palestinese. Smilitarizzare l'Intifada in presenza dell'esercito israeliano sembra inverosimile, eppure gli israeliani già stanno interpretando le parole della I fase che suonano sincroniche - cessazione della violenza palestinese, ritiro israeliano e congelamento degli insediamenti al fine di tornare progressivamente alla situazione del 1967 - nel senso a loro conveniente di condizionare i loro passi solo dopo la cessazione delle ostilità palestinesi contro gli occupanti, il che sarebbe come dire a qualunque resistenza di arrendersi incondizionatamente tanto poi il risultato non cambia e l'esercito invasore se ne andrà prima o poi. Insediamenti e occupazione militare sono le cause del terrorismo resistenziale palestinese, nell'ambivalenza voluta dalle leadership che mandano kamikaze per meglio posizionare il loro potere sul filo di partenza dei negoziati di pacificazione e quindi di passaggio del potere generazionale nel futuro stato palestinese. Smantellare Hamas e la Jihad islamica, invece di negoziarne l'ingresso nell'establishment palestinese (ma sarà questo l'obiettivo di Abu Mazen e Dahlan?), significa che Israele nei fatti sabota il piano già sbilanciato a favore dello stato ebraico, che a Washington ha più amici di quanto non ne abbia la causa palestinese.

In ultima analisi, lo scetticismo è d'obbligo sia sul merito dei passaggi logici ma politicamente irrealistici, sia sul merito di ciò che elude come trattative contenutistiche, sia sul panorama internazionale e regionale che, rievocando undici anni dopo le mosse di Bush padre, mima una continuità inverosimile che dimostra solo il cinismo della diplomazia e l'abboccamento mediatico, peraltro smentito dalla tragica e perdurante sequenza dei morti quotidiani a Gaza e nella West Bank, mentre kamikaze arruolati e martirizzati a suon di fanatismo religioso e dollari alle famiglie sempre più impoverite proseguono la scia di morte infinita senza luce nel tunnel della violenza di stato.

Salvo Vaccaro

 

 

 


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