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Da "Umanità Nova" n. 19 del 25 maggio 2003

Il "debole" riformismo della CGIL
Note sulla legge di iniziativa popolare della CGIL



Oramai forte del nuovo ruolo che il governo Berlusconi le ha consentito ed obbligato ad avere, la CGIL, orfana di una rappresentanza politica adeguata, giacché né Rifondazione Comunista, né la sinistra Diesse più Verdi e Comunisti italiani la rappresentano in toto o hanno la forza necessaria per supportare le sue iniziative, si è fatta promotrice di una legge di iniziativa popolare dalla denominazione roboante: "Proposta di legge di iniziativa popolare promossa dalla CGIL sulla salvaguardia dell'occupazione, sulla qualità del lavoro e sulla garanzia dei redditi". Già il titolo, come potrebbe dire qualcuno, è tutto un programma. A sostegno di tale iniziativa ci sono state oltre cinque milioni di firme di italiani che pensavano di sottoscrivere tutta un'altra cosa, ovvero che credevano di firmare soltanto contro l'abrogazione del famoso articolo 18. L'iniziativa della CGIL aveva trovato come escamotage pubblicitario il famoso slogan: "Tu togli, io firmo". Non so quanti dei firmatari avessero saputo che andavano anche a sostenere un'iniziativa legislativa, ma credo che questo, al momento, non abbia neppure importanza, dal punto di vista dei risultati, che comunque sarebbero stati ampiamente conseguiti, ma dal punto di vista del metodo, qualche peso, forse ne ha.

Poiché qualcuno crede ancora che la CGIL abbia una politica sociale di tipo riformista, o che essa stessa sia un'organizzazione riformista, soltanto per il fatto che si occupa di lavoratrici e di lavoratori, beh credo che la parola debba per forza passare ai contenuti. Non che la questione dei contenuti sia una necessità dell'oggi, ma reputo che sia necessario oggi quanto mai più di prima liberarci di orpelli e fronzoli che coprono, a volte in maniera significativa, la sostanza che si cela al di sotto.

Non voglio qui occuparmi di tutto il disegno di legge, ma soltanto di quelle parti che riguarderebbero la "garanzia dei redditi" e la "qualità del lavoro".

Secondo l'articolo 18 della presente legge i lavoratori licenziati, e quindi soltanto quelli con contratto di tipo subordinato, possono rientrare nelle liste di mobilità individuali o collettive per un periodo che varia dai 18 ai 36 mesi per i lavoratori ultracinquantenni. Il fatto di "agevolare" esclusivamente gli ex subordinati nell'inserimento all'interno delle liste di mobilità ed escludere quelli che per un motivo o per un altro sono costretti a lavorare come soci di cooperativa, co.co.co..., acuisce di fatto una discriminazione che è già in atto sul mercato del lavoro. Ma per proseguire oltre, le aziende, nel caso in cui assumano un lavoratore in mobilità, potranno usufruire di uno sgravio dei contributi pari al 100% per i primi 18 mesi e, ove si tratti di lavoratori licenziati, anche ad un contributo pari al 50% dell'indennità di mobilità per un periodo di 12 mesi, esteso a 24 per assunzioni di ultracinquantenni. Ancora una volta, mentre da una parte si regalano soldi alle aziende, dall'altra si diversificano le opportunità dei ricollocandi sulla base di discrimini contrattuali che nessun lavoratore ha scelto di avere. Perché un'altra cosa che si verifica comunemente nel magnifico mondo del lavoro è che molti lavoratori subordinati vengano costretti dalle aziende a licenziarsi e, quando una persona per "volontà" propria se ne va da un posto di lavoro non può iscriversi alle liste di mobilità né ricevere un'indennità di licenziamento. Quindi secondo questo paragrafo di legge ci troveremmo di fronte a lavoratori che già diversificati prima da ingiuste leggi contrattuali si troverebbero ancor più discriminati dopo, durante la ricerca di un'occupazione. Credo che e non solo per questo la parola estensione generalizzata dei diritti sia una tema incomprensibile ai più nella CGIL.

L'articolo 35 ci parla invece del sostegno al reddito da lavoro: nuovamente il sostegno è dedicato a coloro che svolgono un lavoro subordinato in aggiunta a redditi da lavoro allineati ai contratti stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi. L'articolo dice che se un lavoratore guadagna in un anno dai 3.100 euro lordi sino ai 6.200 euro lordi, cioè è alla fame, può richiedere una integrazione del reddito pari a 3100 euro lordi l'anno. Alla miseria dell'integrazione però si aggiunge a beffa del ricatto: il lavoratore che usufruisca di tale integrazione di reddito verrebbe però obbligato a seguire corsi di studio, di formazione, di riqualificazione o di impegno in attività di utilità sociale, cioè magari a lavorare sottopagato per qualche ente pubblico o per qualche associazione senza fin di lucro. Ma non è finita qui: se un lavoratore rifiuta un'offerta di lavoro equivalente nell'arco di 50 km con emolumenti superiori a quello della soglia di reddito del 9.300 lordi l'anno, ovvero circa 18 milioni di vecchie lire, perde tutto. Facciamo un esempio: uno guadagna 700.000 lire al mese lordi nelle pulizie per 10 mesi, equivalenti a circa 3650 euro lordi a cui si aggiungono altri 3000 euro lordi di indennità lavorativa e bello contento tira un respiro di sollievo: se gli va bene dovrà frequentare un corsetto di aggiornamento sulla pulizia industriale, ma se gli va male e trova uno sceriffo al collocamento che gli offre un lavoro nelle pulizie a "soltanto" 40 km da casa a parità di condizioni con l'aggiunta della misera cifra al lordo, questo buon uomo perderà tutto. Ricordo che tutte le cifre sovramenzionate sono al lordo.

Non paghi di questa bella trovata gli articoli 37 - 48 ci parlano del RMI, ovvero del reddito minimo d'inserimento RMI. I soggetti beneficiari non devono superare la famosa soglia di 6200 euro lordi l'anno e devono essere altresì privi di patrimonio mobiliare, titoli di stato, azioni..., depositi bancari e postali superiori a 1500 euro, la casa non deve valere più di 52000 euro se di proprietà e si possono possedere piccoli appezzamenti di terra improduttivi. Il RMI viene distribuito dal Comune tramite l'INPS e la scelta "politica" sui destinatari e sul reddito tocca naturalmente al comune di appartenenza. Naturalmente anche l'elemosina ha un suo prezzo ed i beneficiari di tale iniziativa, che probabilmente hanno solo più gli occhi per piangere, devono dimostrare gioia e felicità ed accettare il programma di integrazione sociale, pena la decurtazione di una parte o di tutto l'ammontare dell'emolumento. La morale cattolica ha da noi un indubbio peso anche per quelli che si definiscono laici.

Al capo V articoli 49 - 51 il cilindro del welfare cigiellino tira fuori, a fronte della carità pelosa degli altri articoli, ben 15.000 euro da elargire a tutti i giovani tra i 18 ed i 25 anni, che abbiano conseguito l'obbligo formativo ed in assenza di condanne penali, per realizzare o iniziative di tipo imprenditoriale o per formazione post-secondaria qualificata, tirocini professionali o corsi di formazione riconosciuti. Però c'è un inghippo: i soldi sono elargiti dallo stato a titolo di credito e dovranno essere restituiti poco alla volta. Se la funzione di questi denari dovesse essere quella di creare una marea di giovani e rapaci neo-imprenditori, la cifra sarebbe del tutto insufficiente; se, invece, dovesse servire a farli lavorare gratis nei tirocini formativi aziendali, non si capirebbe a quale funzione dovrebbe servire, tanto più che sarebbe poi da restituire, così come non si comprende a cosa servirebbe nel caso in cui dovesse servire a far partecipare giovanotti e giovanotte a corsi di qualificazione professionale che sono offerti gratuitamente.

Dopo questa breve ubriacatura di "welfare all'acqua di rose", si ritorna ai capitoli di legge su quello che la CGIL ha l'impudenza di chiamare "Qualità del lavoro", ovvero contratti di apprendistato, i CIL, contratti di inserimento lavorativo e la Formazione permanente (articoli 50 -76). Per gli apprendisti viene ribadito che la durata, molto lunga per la verità, può variare dai 18 ai 48 mesi: per le qualifiche basse 18 mesi sono evidentemente troppi, mentre per le qualifiche "elevate" 48 mesi sono semplicemente spropositati. Ma la cosa che reputo del tutto "incredibile" è che la CGIL vorrebbe ulteriormente innalzare l'età dell'apprendistato dagli attuali 24 ai 25 anni, con la punta di 27 anni per i portatori di handicap e per i residenti nelle zone a declino industriale (ob 2 e 3 della CEE), ovvero in almeno la metà delle zone industrializzate d'Italia. Ma non paghi di avere aumentato l'età dell'apprendistato "generico" e "qualificato", pensano anche che i possessori di diploma di laurea possano essere assunti come apprendisti sino alla tenera età di 33 anni. Per coloro che non lo sapessero l'apprendistato comporta una decurtazione salariale riguardevole, con un adeguamento annuo sino al raggiungimento della pienezza del salario. Se, ad esempio una persona viene assunta con un contratto di apprendistato nel turismo che duri complessivamente 4 anni, il primo anno questa persona riceverà 738,02 euro lordi al mese e i contributi mensili a carico dell'azienda saranno pari a 11 euro mensili. Tradotto in vecchie lire vorrà dire che l'apprendista costerà all'azienda circa 1.400.000 mensili ed in tasca riceverà si e no 1.200.000, a fronte di un costo aziendale di un lavoratore assunto secondo "tutti crismi" che potrebbe costare al lordo più del doppio. Questo significa in termini molto concreti mettere in concorrenza, anagrafica e non solo, centinaia di migliaia di disoccupati. Ma una cosa di tal genere significa anche svilire e diminuire radicalmente la garanzie di chi è occupato in maniera stabile. Il dato costante della diminuzione dei diritti e contrattuale per coloro che già stabilmente lavorano passa inevitabilmente e necessariamente nella deregolamentazione e nell'abbassamento dei diritti dei nuovi assunti: non riesco a capire come non si riesca a comprendere che se a fianco di lavoratori "stabili", anche contrattualmente, vengono affiancati decine di lavoratori privi di diritti elementari, anche per quelli stabili sarà inevitabile soggiacere a ricatti lavorativi, alla negazione di diritti ed all'impossibilità di richieste di aumenti salariali significativi. Un ulteriore peggioramento previsto nella proposta della CGIL sta nell'abbassare a 10 euro la parte contributiva a carico delle aziende e, la cosa peggiore in assoluto a tale riguardo, è che si prevede un onere contributivo a carico dell'apprendista pari all'1%. Anche se la cifra è naturalmente simbolica ciò che conta è il principio secondo cui il lavoratore dovrebbe distogliere parte dei suoi miseri emolumenti per pagarsi la pensione, cosa che peraltro avviene già per il versamento di 1/3 del 14% sul lordo per quanto riguarda le collaborazioni coordinate e continuative.

Al Capo II della qualità (?) del lavoro la CGIL si inventa i CIL, ovvero i contratti di inserimento lavorativo. Non soddisfatti dei regali alle aziende e delle diminuzioni delle garanzie contrattuali propongono ai disoccupati di lunga durata (per ora si tratta di due anni di iscrizione ai centri per l'Impiego) superiori ai 25 anni e 29 se laureati, ai disoccupati di età superiore ai 45 anni e ai disoccupati impegnati in lavoro di cura familiare. Il contratto sarebbe vincolato ad una riqualificazione professionale (un tirocinio mascherato) e non potrebbe durare più di 12 mesi e si applicherebbero le stesse regole dell'apprendistato. L'azienda già beneficiaria di un lavoratore a costi dimezzati, avrebbe secondo l'articolo 67 diritto anche ad un rimborso forfetario massimo di 1000 euro per ripagare le spese sostenute ad inserire un lavoratore senza diritti. Fantastico!

Per il momento mi fermo qui, ma non ho alcun problema ad affermare che se il grande piano della CGIL è riformista, io, per parte mia, non ho alcun problema a sostituire il presidente della repubblica quando si verificherà l'occasione.

Pietro Stara

 

 

 


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