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Da "Umanità Nova" n. 20 del 1 giugno 2003

Il sorriso di Jessica Lynch
Guerra esterna e guerra interna tra l'Iraq ed Evian



Bionda, minuta, un sorriso timido sotto il berretto militare, Jessica Lynch è divenuta l'icona della guerra in Iraq, l'eroe fotogenico ed accattivante di un'avventura a lieto fine. Oggi, grazie soprattutto alla stampa inglese, sappiamo che la vicenda del soldato Jessica non solo sarà la sceneggiatura di un film ma è stata, sin dall'inizio, soltanto un film. Un film di propaganda. La propaganda di una guerra coloniale in cui era, ed è, necessario continuare a tener nascoste alcune sin troppo evidenti e scomode verità. Dalle "armi di distruzione di massa" mai trovate al divieto di effettuare controlli agli ispettori ONU. Oggi in Iraq sventola la bandiera a stelle e strisce e, quindi, le ispezioni non servono più: gli USA potrebbero rischiare che vengano "scoperte" le armi feroci usate contro la popolazione irachena. Armi letali che non hanno smesso e non smetteranno presto di uccidere. I cronisti da Baghdad riferiscono di cartelli in inglese che interdicono l'ingresso in zone della capitale densamente popolate. Lì vivono uomini, donne e bambini ignari che i proiettili all'uranio impiegati massicciamente sul loro territorio lo contaminano in modo irreversibile. I bambini giocano tra i ruderi dei carri colpiti da questi proiettili, tra le rovine della case e dei ministeri devastati dalle armi all'uranio. Dopo la fine dell'embargo, nell'Iraq "liberato" i bambini continueranno a perire di leucemia. Il soldato Jessica sorriderà dai cartelli della propaganda di guerra, una propaganda che usa il volto un po' infantile di una giovane donna per coprire l'orrore della guerra senza fine contro la martoriata popolazione irachena.

Niente di nuovo sotto il sole: la ragione è di chi vince. E, vista la straordinaria mobilitazione contro la guerra, un po' di vecchia propaganda non può che far bene. Negli USA il soldato Jessica è divenuta un fenomeno di costume: le si intitolano canzoni, la sua faccia compare su poster, magliette, spillette. Nonostante ormai le prove della montatura siano a portata del "grande pubblico" la macchina pubblicitaria regge alle confutazioni delle inchieste giornalistiche. Nel frattempo gli affari prosperano. Incamerata senza troppi contraccolpi la fine di un embargo ormai inutile, poiché rappresentava solo un ostacolo al controllo del petrolio iracheno, il viceré americano si è subito affrettato a cancellare i contratti con le compagnie russe e cinesi dichiarando che produzione e commercializzazione del greggio iracheno sono un affare statunitense.

Alla vigilia della riunione del G8 ad Evian, pochi giorni dopo che un giudice ha sancito che la morte di Carlo Giuliani è stata "legittima difesa", le minacce di guerra paiono tutt'altro che sopite. Nell'avventura infinita della Gang Bush già altri obiettivi, altri "stati canaglia" da assoggettare si profilano all'orizzonte.

Ma il fronte interno non è meno caldo di quello esterno. Alla vigilia di questo G8 non possiamo non rammentare che quello che in tanti vivemmo a Genova nel 2001 fu solo uno dei tanti episodi di una guerra feroce e silenziosa, una guerra che, come tutte le guerre, aveva lo scopo di terrorizzare, ferire, uccidere, annientare il proprio nemico. La violenza che in quel luglio le varie forze del disordine scatenarono contro migliaia di manifestanti, gassandoli, pestandoli, torturandoli mirava ad annientare ogni voce di dissenso, ogni grido fuori dal coro, ogni spazio di critica contro un mondo ingiusto, crudele, sempre più diviso tra potenti e senza potere, tra chi ha troppo e chi nulla, nemmeno una speranza di vita.

I movimenti no-global, pur tra mille contraddizioni, pur attraversati da ampie aree politiche più propense al dialogo mimetico con la controparte che ad una contestazione radicale, hanno rappresentato - e rappresentano - la prima ribellione "globale" dopo molto tempo. Per questo hanno fatto e fanno a paura, per questo la repressione è stata tanto feroce. Per questo la vicenda giudiziaria sulla morte di Carlo Giuliani non poteva che chiudersi con l'affermazione della "legittima" difesa.

In nome di quella stessa "legittima" difesa da allora sono caduti sotto le bombe migliaia di afgani e di iracheni. I feriti, i mutilati, gli avvelenati dai gas e dall'uranio sono solo pedine nella guerra infinita per il dominio planetario. Come Carlo Giuliani: stritolato in un gioco molto più grande di lui, molto più grande di ciascuno di noi.

La guerra, quella esterna e quella interna sono ormai entrate a far parte del nostro panorama. Anche oggi siamo in guerra. Una guerra quotidiana che attraversa il corpo delle nostre città, erodendo quella coscienza civile che credevamo patrimonio acquisito nel nord prospero, sano, libero. Già, libero. Qui da noi le squadracce in divisa del ducetto di Arcore si scatenano in rastrellamenti dei quartieri abitati dai migranti picchiando, intimidendo, assoggettando alla propria violenza quelli che la legge Bossi-Fini ha trasformato in schiavi legalizzati. Per chi si ribella, c'è la galera, il centro di detenzione, l'espulsione. Anche per i bambini. A Torino l'amministrazione di sinistra ha aperto una prigione apposta per loro.

La guerra interna dalla quale siamo tutti investiti è meno eclatante di quella appena conclusasi tra il Tigri e l'Eufrate, ma non è meno devastante. Da anarchici sappiamo bene che la guerra esterna e quella interna hanno lo stesso fronte, e una rimanda all'altra.

Sul fronte interno l'immagine del nemico è oculatamente disegnata in modo da aprire e chiudere differenti linee di cesura, rendendo disagevoli le convergenze. Di volta in volta il nemico è il migrante povero, il lavoratore che reclama diritti, la popolazione in lotta contro le devastazioni ambientali, l'antimilitarista, l'interinale incazzato, il cinese untore, il no-global.

I segnali della guerra sono ovunque anche se l'abitudine o l'apatia li rendono sempre meno intelligibili, parte del panorama usuale tanto da apparire "normali", privi di connotazioni di eccezionalità tali da suscitare allarme, preoccupazione, dubbio.

D'altro canto le guerre non sono combattute solo da generali ma anche da truppe. Truppe spinte dalla coercizione, dalla paura, ma, non di rado, anche dalla convinzione. Sono i tanti cittadini perbene che plaudono alle retate, che inveiscono contro i piccoli borseggiatori rumeni, che sparano e uccidono per qualche centinaio di euro di incasso.

Ma la guerra contro l'Iraq ha altresì dimostrato che l'area di chi vi si opponeva è vasta e radicata: le bandiere arcobaleno che ancora fanno capolino da tanti balconi sono il segno visibile di un no senza reticenze. Queste bandiere che hanno colorato le manifestazioni pacifiste non abbandonano neppure le piazze: le abbiamo viste in decine di cortei, manifestazioni, sit in, scioperi. Ormai in tanti sanno che la guerra è una sola: quella degli sfruttati contro gli sfruttatori, degli oppressi contro gli oppressori.

La seconda guerra del Golfo, pur facilmente vinta dagli statunitensi sul campo, è stata assai meno vittoriosa sul piano dell'adesione, dell'efficacia dell'apparato propagandistico. Ben pochi hanno abbracciato la tesi della legittima difesa preventiva. Che si tratti dei marine USA o dei carabinieri Cavataio e Placanica. Non basterà il sorriso di Jessica Lynch a cancellare l'orrore della guerra, la ferocia degli assassini in divisa. Sempre gli stessi. A Baghdad come a Genova. Come ad Evian. Lì, ancora una volta, 8 criminali si accomodano al loro banchetto annuale.

Mortisia

 

 

 

 


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