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Da "Umanità Nova" n. 20 del 1 giugno 2003

La "modernità" del fondamentalismo
La galassia islamista tra terrorismo ed internet



La fine delle operazioni belliche in Iraq è stata seguita dopo poche settimane dal rilancio del "terrorismo islamico". Dall'Arabia Saudita al Marocco, dalla Cecenia al Pakistan, attentati dinamitardi gestiti con la tecnica cosiddetta dei "kamikaze" ed esplosioni contro i distributori di benzina della Shell, l'impresa anglo-americano-olandese che ha ottenuto la gestione della commercializzazione del greggio iracheno direttamente dalla Casa Bianca.

A questi atti si devono aggiungere gli attentati palestinesi contro le forze di occupazione israeliane e i cittadini dello stato sionista, ma questo è uno stillicidio che continua e continuerà al di la delle contingenze dello scontro tra le forze islamiche e il neocolonialismo angloamericano.

I commentatori occidentali, senza quasi differenze hanno subito scritto che si trattava del ritorno in grande stile di Al Qaeda, in questo aiutati dal video del vice di Osama Bin Laden che ha rivendicato via videocassetta tutti gli attentati. Peccato che questa lettura, facile e immediata, utile agli islamici per diffondere il mito di un'organizzazione ramificata ed invincibile, e agli angloamericani per giustificare sempre nuove aggressioni coloniali e la loro presenza armata in Medio Oriente, faccia acqua da tutte le parti.

Il giornale libanese "Daily Star" ha notato come gli attentati di Riyad avessero un obiettivo ben preciso e non colpissero nel mucchio degli occidentali trasferiti nella penisola arabica per motivi di lavoro.

Il 12 maggio sono stati colpiti uffici e case di dirigenti e lavoratori della Vinnel Corporation, l'azienda americana (comprata di recente dal gruppo multinazionale Northrop-Grumman) che addestra gli ottantamila uomini della Guardia Nazionale saudita sotto la supervisione dell'esercito americano. Questa azienda, gestita da ex militari americani ed agenti della Cia, era stata l'obiettivo degli islamisti in occasione dell'attentato alla base militare americana in terra saudita al Khobar del 1995. Questo attentato è avvenuto subito l'annuncio del prossimo abbandono americano delle basi militari presenti nella penisola arabica dopo la prima guerra del golfo. Le basi militari americane saranno egregiamente sostituite da quelle costruite negli emirati del golfo (Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrein, Oman) e da quelle in costruzione in Iraq, mentre il laccio sul collo della dinastia dei Saud sarebbe garantito proprio dall'azione della Vinnel che si configura di fatto come il vero comando strategico dell'esercito saudita. In altre parole la dinastia degli Sceriffi della Mecca salverebbe la faccia di fronte a una popolazione sempre più insofferente della presenza americana sul proprio suolo, gli americani non perderebbero la loro presa nel paese arabo e potrebbero giocare da posizioni di vantaggio la partita per trasformare il paese dei Saud da alleato infido in regime allineato e lontano dai fondamentalisti.

Gli islamisti, i cui rapporti con i servizi segreti sauditi e con settori fondamentali del regime e della stessa famiglia reale sono ormai chiari a tutti (i Bin Laden fanno parte da sempre dell'entourage dei Saud, oltre che del gruppo Carlyle che si configura come luogo d'incontro dei capitali finanziari americani ed arabi, e lo stesso Osama veniva considerato il campione della casa saudita quando combatteva i russi in Afganistan), hanno quindi inviato un messaggio chiaro diretto a colpire i diretti rappresentanti americani nella prossima lotta di successione al trono di Abdallah.

In Marocco, invece, sono stati colpiti obiettivi scelti più per la facilità che per la loro importanza; l'obiettivo vero in questo caso era la famiglia reale marocchina che aveva sempre creduto di poter evitare problemi con gli islamismi radicali grazie alla discendenza diretta dal profeta Mahmud.

In Cecenia, infine, due attentati hanno colpito pesantemente le forze di occupazione russa del paese, segnalando che la fazione islamica è riuscita in modo definitivo a prendere in mano la guerriglia indipendentista del paese caucasico, nata inizialmente come laica. Nel frattempo gli islamismi yemeniti hanno fatto saltare un tribunale che aveva condannato alcuni di loro a pesanti pene detentive, mentre quelli pakistani si sono concentrati sulle pompe di benzina della Shell.

A questo elenco si potrebbero aggiungere gli attentati e i rapimenti di turisti in Algeria, piuttosto che gli attentati di pochi mesi fa in Indonesia, o quelli effettuati in Kenia a gennaio.

Ognuno di questi attentati è stato compiuto da militanti locali di gruppi definiti su base nazionale. Il ministro dell'Interno saudita, principe Naif che incolpa "gli stranieri" degli attentati è chiaramente patetico, ma non lo è di meno il presidente americano Bush che annuncia la continuazione della guerra contro Al Qaeda.

Ad un osservatore appena meno smaliziato salta, invece, agli occhi che non ci troviamo di fronte a una sorte di "Organizzazione Spectre" (i nemici di James Bond, per intenderci) fantasmatica, inafferrabile e gestita da un grande vecchio che ne decide le sorti, quanto con un milieu di gruppi islamisti radicali, formati per lo più da giovani di classe media occidentalizzati che guardano ad Al Qaeda come riferimento ideale, ma non certo come a un centro organizzativo. Ci troviamo di fronte all'esplosione di una violenza islamista diffusa, senza un centro motore e con mille leader locali, facilitata nel suo compito dall'imporsi del modello degli shadid (i martiri), vere e proprie bombe umane pronte a farsi esplodere con il loro obiettivo, e quindi più efficaci nell'azione terroristica.

Al Qaeda non è stata mai il centro organizzatore mondiale dell'islamismo radicale che oggi ci viene fatto credere; nel periodo tra il 1996 e il 2001, quando Osama Bin Laden e la cerchia che si riconosceva nella sua organizzazione erano saldamente impiantati in Afganistan, è stata piuttosto il centro di contatto tra gruppi islamici radicali diffusi in tutto il mondo, i cui legami dipendevano spesso da una sorte di cameratismo tra reduci della jihad antisovietica degli anni Ottanta, reti finanziare arabe delle quali il buon Osama era il rappresentante più conosciuto ed autorevole, e servizi segreti di paesi amici come l'Arabia Saudita e il Pakistan.

La guerra d'Afganistan ha distrutto questa sorta di "centro di smistamento" per progetti islamici radicali e ha teoricamente messo in riga gli attori statali e finanziari di questa partita. In realtà è ormai del tutto chiaro che la guerriglia all'interno dell'Afganistan è alimentata dai servizi segreti pakistani che ufficialmente appoggiano la politica filoamericana del presidente Musharraf, ma sotto banco continuano a finanziare le reti islamiste e proteggono l'operato della loro vecchia creatura: il partito Taleban.

In Arabia Saudita la commistione tra servizi segreti vicini agli islamismi radicali, gruppi finanziari in affari con gli americani ma desiderosi di sottrarsi alla loro tutela, e la lotta di successione interna alla numerosissima famiglia reale disegna una situazione che vede il doppio gioco tra islamismi e americani come la regola e non l'eccezione nell'operato dei dominanti del paese.

Non bisogna, infatti, dimenticare che l'Arabia Saudita (o, meglio la famiglia Saud e la sua corte) è diventata ricca su di una rendita petrolifera il cui godimento indisturbato è stato permesso dalla protezione americana; in cambio però gli USA hanno imposto che questa stessa rendita venisse investita in modo esclusivo negli Stati Uniti. Questo ha portato non solo alla dipendenza del paese arabo da quello americano, ma anche una forte commistione tra i capitali dei due paesi e tra le classi dominanti. Il terrorismo islamico e la "guerra al terrorismo", da questo punto di vista sono uno scontro interno alla classe dominante mondiale, tra detentori del potere finanziario, politico e militare mondiale, e i loro soci di minoranza. In altre parole l'altra faccia di un conflitto tra detentori di pacchetti di azioni trasferita, però, nella vita quotidiana di milioni di persone.

Accanto a questo non dobbiamo però dimenticare che ci sono centinaia di migliaia di persone che militano attivamente nell'estremismo islamico, e si fanno soldati di questa guerra tra dominanti, sfruttandone le risorse e le possibilità per ottenere il loro obiettivo che è quello di creare una comunità di stati islamici come reazione alla globalizzazione occidentalizzante.

Si tratta però di una reazione che non ha nulla di "ritorno all'antico", bensì si tratta di un progetto modernissimo, costruito non da vecchi babbioni devoti, ma da giovani esponenti delle classi dominanti e dei ceti medi arabi occidentalizzati. Queste persone hanno covato nel ventennio di stretta collaborazione con gli USA ed altri paesi occidentali un progressivo senso di frustrazione per la condizione di inferiorità nei confronti di alleati tanto ingombranti, e si sono resi conto del pericolo di distruzione degli antichi legami sociali dei paesi arabi rappresentato dall'importazione dello stile di vita e delle ideologie occidentali, soprattutto per quanto riguarda la condizione femminile e le libertà individuali.

Per contrastare il processo di occidentalizzazione dei loro paesi essi non hanno cercato di reimporre la tradizione, ma la hanno reinventata. Caratteristica del moderno islamismo radicale, infatti, è la sua modernità, la sua costruzione come risposta modernizzante all'occidentalizzazione del mondo arabo. Per gli islamismi radicali il Corano va reinterpretato alla luce delle nuove sfide che subisce il mondo arabo, le vecchie dinastie islamiche vanno sostituite in quanto corrotte dai nuovi portavoce del profeta, concetti come il martirio-suicidio sono stati importati in un corpus al quale erano completamente estranei. Tutti i ritrovati tecnologici e finanziari moderni vengono utilizzati senza alcuna remora e l'antico divieto di usura viene allegramente dimenticato. L'islamismo radicale contemporaneo è un fenomeno moderno e modernizzante e si sta sempre più configurando come lo strumento per l'accesso autonomo all'economia mondo capitalistico per una parte consistente delle classi dominanti dei paesi islamici, alle quali è perfettamente chiaro il ruolo subalterno a loro destinato all'interno della globalizzazione a guida americana.

Come si può capire, quindi, un fenomeno non riconducibile allo sceicco Bin Laden e alla sua organizzazione, ma un fenomeno diffuso, che conta finanziamenti interni alle reti finanziarie arabe, dirigenti espressi da classi medie occidentalizzate e frustrate nelle loro ambizioni proprio dall'occidente, e militanti espressi dalle classi popolari dei paesi islamici pauperizzate dalle politiche neoliberiste attuate dai paesi arabi in ossequio alle direttive dell'FMI.

Un cocktail esplosivo, quindi, che prelude alla formazione di un'ideologia panislamica capace di sostituirsi con successo al panarabismo e al "socialismo arabo", espressione delle classi dominanti progressiste e occidentalizzanti degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo passato.

Giacomo Catrame

 

 

 

 


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