Da "Umanità Nova"
n. 20 del 1 giugno 2003
Ostaggi dei padroni
Bossi-Fini e sanatoria
Il 10 settembre del 2002, assieme alla famigerata legge 189/2002, meglio
nota come Bossi-Fini, è entrata in vigore anche una sanatoria (già
questo termine, usato spesso dai nostri legislatori, è indicativo:
le metafore medico-chirurgiche erano molto amate da un certo Benito e
dai suoi sgherri). Questa, a parole, si proponeva di "regolarizzare" diverse
migliaia di lavoratori senza documenti, facendo nel contempo emergere
il lavoro nero.
La sanatoria prevede il rilascio del permesso di soggiorno se si dimostra
che un lavoratore è alle dipendenze di un'impresa, o di una famiglia
nel caso di colf o badanti, (quindi si tratta solo di lavori subordinati)
almeno a partire da giugno 2002. Il datore di lavoro sarebbe tenuto altresì
a garantire l'alloggio al dipendente.
Detta così ce ne potremmo uscire con un "come è umaaano
lei" di fantozziana memoria, ma si sa che questa frase il buon ragionier
Ugo la usava per significare l'esatto opposto.
Infatti anche qui c'è la fregatura, anzi, le fregature.
Innanzitutto vediamo a chi è veramente diretta la sanatoria,
rispondendo ad alcuni semplici quesiti:
A chi spetta fare domanda di sanatoria per il lavoratore dipendente?
Al lavoratore stesso, verrebbe da rispondere. Risposta errata! Spetta
al datore di lavoro, senza la cui firma il lavoratore non può ricevere
alcun documento.
Ma il datore di lavoro cosa ci guadagna a richiedere che i propri dipendenti
usufruiscano della "sanatoria"?
Qui la risposta è semplice quanto chiarificatrice: usufruire
di manodopera in nero è un reato passibile di alte ammende e, in
taluni casi, punibile anche più severamente. Questa sanatoria permette
ai datori di lavoro, loro sì non in regola, di cavarsela pagando
una somma irrisoria (che di solito peraltro i bravi padroni italici pretendono
dall'immigrato stesso) e avendo in più dei veri e propri schiavi
a disposizione.
Infatti, essendo il permesso di soggiorno legato strettamente al contratto
di lavoro, chi non accetta le condizioni dettate dal padrone non solo
perde il lavoro, e con esso spesso la casa: assieme a lavoro e casa si
perde il diritto stesso a rimanere in Italia. Secondo le procedure sancite
dalla Bossi-Fini, ciò significa che ti prendono ti sbattono in
un lager chiamato centro di permanenza temporanea e poi ti rispediscono
al Paese di origine con un calcio nel posteriore.
Quindi o "Taci e obbedisci" o te ne torni a casa.
Terza domanda e terza risposta: il fatto che sia il padrone a garantirti
l'alloggio è già una lama a doppio taglio, ma chi controlla
che lo faccia sul serio?
Semplicemente nessuno. Con uno dei vari decreti attuativi di questa
legge si dichiara candidamente che non è possibile controllare
che i datori di lavoro garantiscano alloggi degni, sarebbe troppo dispendioso.
E il lavoratore? In cantina! Non è una metafora, spesso finisce
sul serio così e per di più con affitti degni di una suite
d'albergo.
Si vede quindi che la risposta alla domanda iniziale: per chi o, meglio,
a vantaggio di chi è stata ideata questa "sanatoria", trova risposta
quasi da sé; a guadagnarci sono i soliti sfruttatori di sempre,
i datori di lavoro, in questo caso più che mai i padroni.
Ma la beffa non finisce qui. La sanatoria si sta dimostrando un disastro
totale.
Le domande di "emersione dal nero" sono state circa 697.000, ma ne sono
state valutate poche migliaia. Le prefetture valutano le domande alla
media di 20 al giorno; di questo passo, se si vuole dare risposta a tutti
i richiedenti, le ultime pratiche saranno concluse fra una ventina d'anni.
Nel frattempo molti lavoratori immigrati vivono in un limbo in cui non
hanno praticamente diritti e finché non ottengono il permesso di
soggiorno non possono uscire dall'Italia, pena la perdita di ogni diritto
a ritornare. Si tratta, in pratica, di veri e propri ostaggi.
A ciò si aggiunga che molti padroni, facendo due conti, hanno
capito che un clandestino è uno schiavo ancor più ricattabile
e quindi era preferibile licenziare i lavoratori che chiedevano di essere
messi in regola piuttosto che assumerli. Inoltre molte questure, prima
fra tutte quella di Milano, han pensato bene di considerare la richiesta
di sanatoria come autodenuncia da parte del lavoratore che è stato,
di conseguenza, espulso. Ciò ha fatto sì che molti, a ragion
veduta, non provassero neppure a fare richiesta.
L'indecenza dei decreti attuativi, spesso contraddittori l'uno con l'altro,
ha portato ogni Prefettura ed ogni Questura a crearsi la propria prassi
procedurale, mettendo così la vita del migrante nelle mani del
burocrate di turno.
La nostra conclusione è quella di sempre: da una legge razzista
non può che emergere un concetto del lavoro razzista e classista
che legittima, di fatto, lo sfruttamento e la riduzione in schiavitù
dei lavoratori migranti a vantaggio dei padroni. L'unico modo per abbattere
questa schiavitù è abbattere il capitalismo che la produce
e i confini che fungono da catene per gli sfruttati di ogni parte del
mondo.
Senza confini e senza padroni nessuno è schiavo.
Commissione antirazzista F.A.I.
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