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Da "Umanità Nova" n. 20 del 1 giugno 2003

Dibattito referendum 7:
Un altro giorno di lotta



Il referendum sull'art. 18 della l.300/70 è in primo luogo un'occasione di mobilitazione, di dibattito e di chiarimento. Nell'ottica dei promotori (PRC, sinistra DS, FIOM), è operazione interna allo scontro tra le varie anime della sinistra politica e sindacale (ricordiamo che quando il referendum venne proposto era in ascesa l'astro di Cofferati e scopo della proposta di referendum era anche "rilanciare" rispetto alle posizioni della maggioranza CGIL e dell'Ulivo le quali difendono a parole l'art. 18 così come è, ma non sono disposti a battersi fino in fondo in difesa dei diritti dei lavoratori che il governo vuole attaccare). Oggi il quadro politico in cui si inscrive il referendum è caratterizzato dal violento attacco alle condizioni di lavoro che questo governo sta portando avanti sia con la legge delega di riforma del mercato del lavoro, c.d. legge Biagi, che con la riforma del collocamento e dell'orario di lavoro, nonché con il progetto di legge di integrale riforma dell'art. 18 stesso. Bisogna però ricordare che il governo Berlusconi porta con violenza a compimento un percorso iniziato dai governi dell'Ulivo (pacchetto Treu: lavoro interinale e co.co.co), nonché dai tanti, troppi, contratti collettivi al ribasso firmati da CGIL-CISL-UIL in questi anni e ancora oggi. Anche senza la legge Biagi, la galassia del lavoro atipico (contratti a termine, la cui riforma è del 2001, lavoro internale, co.co.co., soci di cooperative) si è dilatata in modo continuo, mentre le aziende esternalizzavano e dislocavano parti del ciclo produttivo, facendo ricorso alla mobilità (licenziamenti collettivi con un'indennità a carico dell'INPS per uno-due-tre anni, sulla base di accordi sindacali) per i dipendenti più anziani, con un vero e proprio riciclo di manodopera finanziato dall'INPS e dai lavoratori stessi, le cui condizioni (tempi, salario, condizioni di lavoro) sono sempre peggiorate. Senza tema di essere smentiti, possiamo dire che il mondo del lavoro nel nostro paese si è imbarbarito ed è destinato a peggiorare ancora.

Se questo è il quadro, mi pare che il referendum sull'art. 18 dovrebbe essere, come detto all'inizio, una occasione di dibattito, chiarimento e mobilitazione. Di dibattito sul quadro devastato che ho prima descritto, sulle ragioni del suo determinarsi; di chiarimento sulle reali intenzioni dei vari attori (le organizzazioni dei lavoratori, i partiti) che del mondo del lavoro vorrebbero essere i rappresentanti; di mobilitazione dei lavoratori e con i lavoratori per andare oltre il referendum ed elaborare collettivamente sui luoghi di lavoro strumenti e strategie per sovvertire i rapporti di forza che vedono oggi il mondo del lavoro vivo sulla difensiva, se non in ritirata, davanti al capitale: penso, ad esempio, al superamento della frammentazione indotta dal capitale tra i lavoratori nello stesso stabilimento attraverso organismi rappresentativi di tutti i lavoratori di tutte le aziende presenti e indipendentemente dalla forma del loro contratto di lavoro, così come alla rivendicazione di contratti "di prodotto", "di area" o "di stabilimento" che colmino le disuguaglianze salariali e di diritti tra chi lavora fianco a fianco quotidianamente. Il referendum, se approvato, "farebbe uguaglianza" tra alcuni lavoratori davanti a licenziamenti illegittimi: sarebbe una parzialissima vittoria, ma non una vittoria dei promotori; piuttosto, di chi potrebbe, domani, ricorrere a quella norma modificata per non perdere il posto di lavoro. Fuori da un contesto di impegno quotidiano a fianco dei lavoratori per il miglioramento delle loro condizioni, il referendum non è che politica e ipocrisia istituzionale. Dentro il faticoso percorso di costruzione di rapporti di forza diversi dagli attuali tra lavoro e capitale è solo un altro giorno di lotta.

Simone Bisacca

 

 

 

 


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