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Da "Umanità Nova" n. 21 del 8 giugno 2003

Un indio per presidente
Stato d'assedio in Perù contro la rivolta popolare



Da oltre 500 anni, in America latina, esiste uno scomodo convitato di pietra per ogni élite al potere: la popolazione indigena, sopravvissuta al primo genocidio della storia, la conquista hispanica (e portuguesa) seguita alle spedizioni di Cristobal Colon.

Senza contare i meticci, gli indigeni ancora oggi costituiscono la maggioranza della popolazione in Perù (9 milioni su un totale di 10 mln di peruviani), in Bolivia (quasi 5 su quasi 9 mln), una significativa minoranza in Ecuador (4 su quasi 10 mln), in Guatemala (5 su 10 mln), mentre in Messico i 10 milioni di indigeni equivalgono al 10% della popolazione complessiva, concentrata per lo più nelle regioni meridionali.

Le nazioni non sono citate a caso, così come non a caso sono protagoniste di eventi e processi conflittuali da secoli che ultimamente hanno visto il prepotente ritorno alla ribalta dell'attenzione mediatica della questione irrisolta degli indigeni, dei loro diritti calpestati, della loro vita culturale, del possesso delle loro storiche terre, degli alimenti e dei medicinali tradizionali con cui da secoli si alimentano e si curano.

La quasi concomitante ascesa al potere di esponenti di una élite che a parole si gloria del sostegno alle rivendicazioni indigene, e delle cui popolazioni hanno goduto un sostegno entusiasta, ha fatto gridare al miracolo: finalmente l'ex colonnello golpista filo-indigeno Gutierrez è salito al potere in Ecuador con un programma politico pieno di promesse di soluzione dei problemi indigeni, così come Lula in Brasile capitalizza il sostegno critico dei Sem terra, mentre addirittura in Perù veniva eletto democraticamente, dopo oltre un decennio di democratura del giapponese Fujimori, il presidente Toledo, egli stesso indigeno, il primo presidente indigeno dell'America latina. Per non parlare di Chavez il cui potere traballante in Venezuela si alimenta anche del sostegno degli indigeni locali, minoranza povera tra un mare di povertà in una nazione ricca del petrolio che esporta negli Usa.

La luna di miele, tuttavia, è durata ben poco: se Lula ancora resiste, Gutierrez ha già perso il sostegno popolare, mentre Toledo si è visto costretto dagli eventi per nulla imprevedibili a dichiarare lo stato d'assedio sine die per difendere il paese, cioè le istituzioni, dalle rivendicazioni sindacali di una serie impressionante di categorie del lavoro che chiedono salari migliori per uno standard di vita più elevato, pari alle aspettative create in campagna elettorale da un presidente "come loro". Purtroppo il "loro" presidente si sta comportando come il "loro" presidente, ossia come uno qualsiasi proteso a difendere il proprio posto sorretto dalle forze armate e dalle istituzioni finanziarie internazionali che aprono e chiudono i cordoni del denaro a piacimento, appunto, "loro".

Il fatto è che le rivendicazioni indigene non sono compatibili con una programma politico tradizionale, anche di sinistra, al meglio socialdemocratico, in quanto dignità, salute, tradizione, cultura, alfabeto, non si tutelano a suon di flussi finanziari (se non come effetto di una scelta precisa) quanto grazie ad una opzione esistenziale che investe il destino dell'intera nazione in cui gli indigeni sono o maggioranza o significativa minoranza ma con memoria culturale ben radicata. In altri termini, non è solo questione di denaro da investire per gli indigeni, e quindi contro la fame e la povertà materiale e immateriale, ma anche e soprattutto di opzione culturale che investe lo sviluppo di una società a misura delle comunità esistenti, senza voler trapiantare, estirpando a forza con uno sterminio culturale dissimulato che prolunga indefinitamente il genocidio della conquista, miti e illusioni di un mondo liberale e individualista laddove tali valori e tali politiche risultano non solo estranee ma anche micidiali e criminali.

Tali sono infatti le politiche per valorizzare la geo-politica Usa del suo "cortile di casa" (backyard) attraverso le politiche di militarizzazione della Colombia con la scusa del narcotraffico gestito dalla guerriglia, attraverso le politiche di privatizzazione dell'acqua tentata in Bolivia a Cochabamba, attraverso l'assimilazione forzata delle minoranze indigene, sullo stile yankee a cavallo tra fine Ottocento e inizio Novecento, attraverso il disboscamento di terre stanziali di intere comunità per farvi passare un ennesimo oleodotto che congiunge il Pacifico con i Caraibi così vicini ai mercati di consumo del nord del continente, come il consorzio Ocp sta facendo in Ecuador secondo il ben noto metodo "concertativo" dell'Eni's Way (depredazione e espropri in cambio di una palestra, di qualche pallone da football non richiesto e di qualche altro gadget per tacitare le popolazioni indigene senza dare nell'occhio dell'opinione pubblica mondiale).

Chi si era illuso che élite al potere vicine agli indigeni perché provenienti dalle sue fila potessero avviare a migliore soluzione una condizione precaria di esistenza, oltre a non fare i conti con l'impagabile prezzo della dignità, come ci ricordano le comunità del Chiapas, dimentica troppo facilmente per essere in buona fede la necessaria collocazione dei governi nel mondo globale, con margini di manovra che si riducono sempre più perfino per un presidente di una grande nazione come il Brasile. Toledo e Gutierrez sono gli ultimi esempi delle parabole politiche di élite sinistrorse la cui metamorfosi è nell'ordine naturale della politica statuale, e non certo un accidente di percorso involontario rispetto al programma di governo.

Esistono peraltro alcuni esempi di collaborazione infrasocietaria tra popolazioni indigene in senso orizzontale per rafforzare i loro margini di sopravvivenza e per fortificare le organizzazioni conflittuali (la Conaie soprattutto), mentre alcune organizzazioni non governative cercano di stornare fondi (comunitari o del sistema Onu) della cooperazione internazionale per metterli a servizio delle esigenze primarie degli indigeni attraverso programmi di sviluppo culturale e rurale che vedono protagonisti gli indigeni stessi, offrendo loro la possibilità di continuare le loro tradizioni meticciandole con altre senza smarrire identità e memoria e senza ossificarle in un integralismo fondamentalista che non appartiene loro, se non in qualche variante sincretistica e animista che media l'oppio dei popoli con posizioni di potere interne e cristallizzate alle comunità.

Si tratta di esperimenti isolati e quindi fragili, ma indicano una via senza dubbio più qualificata e meno illusoria che non il classico ricorso a esponenti di élite vicine che non esitano un attimo, qualora traballanti e accusati di tradimento delle promesse elettorali (come è il caso palese di Gutierrez), a scagliare contro gli indigeni l'esercito nonché i vari corpi paramilitari di latifondisti interessati a detenere il 90% delle terre fertili e quasi la metà della ricchezza (rurale e non) prodotta, essendo meno del 10% della popolazione del paese.

Salvo Vaccaro

 

 

 

 

 

 

 


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