Da "Umanità Nova"
n. 21 del 8 giugno 2003
Dibattito referendum 10:
L'astensionismo si addice agli anarchici
"L'astensione per noi è una questione di tattica; ma è tanto
importante che, quando vi si rinunzia, si finisce col rinunziare anche
ai principi. E ciò per la naturale connessione dei mezzi col fine."
(E. Malatesta, Società autoritaria e società anarchica,
L'Agitazione, 28 marzo 1897)
Uno dei luoghi comuni più abusati a proposito degli anarchici
è quello che li presenta come degli inguaribili romantici legati
a teorie e prassi antiquate. Tra i "segni" di questa attitudine viene
spesso menzionato l'astensionismo, ritenuto dai critici una sorta di "sacro
principio" verso il quale gli anarchici avrebbero una sorta di venerazione.
Fino a non molti anni fa tutti i partiti politici indicavano l'astensionismo
come un comportamento da biasimare e, in diverse occasioni, non sono mancate
anche delle vere e proprie campagne mediatiche contro la diserzione dalle
urne. Da qualche anno a questa parte nessuno dei partiti demonizza più
l'astensionismo che viene visto invece come una delle possibili opzioni
disponibili nel quadro di una visione più pragmatica dell'agire
politico.
L'astensionismo quindi non caratterizza più, o almeno non più
come un tempo, esclusivamente l'antistatalismo anarchico.
Ma gli anarchici, contrariamente ai luoghi comuni, non rifiutano lo
strumento del voto "in sé", il nostro astensionismo infatti non
è un immutabile principio, ma una precisa scelta tattica che riguarda
principalmente il contesto all'interno del quale lo strumento del voto
svolge la sua funzione.
Così l'astensionismo alle elezioni politiche è legato
al rifiuto completo e definitivo del gioco partitico, del principio della
delega in bianco e di una classe privilegiata quale è quella dei
parlamentari e dei loro più stretti fiancheggiatori. Tale posizione
ha sempre contraddistinto il movimento anarchico che ha continuamente
rivendicato la propria estraneità alle tattiche machiavelliche
del "fine che giustifica i mezzi".
Stesso genere di approccio vale per i referendum che, solo apparentemente,
sembrano diversi dalle altre consultazioni popolari. Anche in questo caso,
infatti, non è tanto il meccanismo decisionale che viene rifiutato
dagli anarchici, ma il fatto che si tratti di votazioni che si svolgono
invariabilmente in un contesto statale, all'interno del quale anche tale
strumento perde il suo valore potenzialmente "libertario" per acquistarne
un altro esclusivamente funzionale al mantenimento dello status quo.
Del resto nelle riunioni anarchiche si ricorre normalmente alla votazione
per esprimere un parere e nessuno si è mai scandalizzato di questa
prassi proprio perché, a differenza di quanto accade nella società
prigioniera, chiunque vinca non può poi costringere chi perde a
sottomettersi alla decisione scaturita dal voto. Esattamente il contrario
di quanto avviene in qualsiasi genere di consultazione, referendum compresi,
nella quale la minoranza perdente è costretta a subire il risultato
del voto.
Periodicamente, all'interno del movimento anarchico, vengono diffusi
appelli al voto e, in diverse occasioni, il dibattito fra coloro che ritengono
necessario recarsi alle urne e coloro che rivendicano l'astensionismo,
si fa incandescente.
Così è stato nel 1972 quando "il manifesto" (allora un
partito) presentò la candidatura di Pietro Valpreda e diversi compagni
proposero un elettoralismo "tattico" per liberare dalla galera il compagno
accusato di essere il responsabile della Strage di Stato di Piazza Fontana.
Lo stesso è avvenuto, in seguito, in occasione di alcuni referendum
particolarmente sentiti, come quello sul divorzio, sull'aborto, quello
contro la caccia, quello per la depenalizzazione delle "droghe leggere".
Lo stesso accade oggi con il referendum sull'articolo 18.
In tutti i casi i compagni favorevoli al voto hanno usato argomentazioni
simili: il referendum sarebbe diverso dalle elezioni politiche e la nostra
partecipazione sarebbe esclusivamente una "tattica" che non inficia la
nostra strategia antiparlamentare. Altra motivazione è quella della
"centralità" della scadenza, come se tale ragione non potesse essere
adoperata in quasi tutte le altre occasioni di voto. In alcuni casi si
è sottolineato come un voto "tattico" sia necessario per mantenersi
in relazione con determinati settori sociali ma ci si è dimenticati
che quella scelta potrebbe provocare, contemporaneamente, la rottura delle
relazioni con altri settori della società.
L'errore di chi propone il voto sta proprio in questa pretesa di indirizzare
il movimento verso una prassi che considera centrale il fatto di "esserci",
di "partecipare" per non restare esclusi da un gioco che non è
certamente il nostro. A queste motivazioni spesso si aggiunge quella di
scegliere il "male minore", come se - passando dalla padella alla brace
- cambiasse il risultato finale.
Gli anarchici astensionisti e quelli favorevoli al voto sono accomunati
dalla convinzione di considerare le loro rispettive posizioni delle "tattiche"
che però - per ovvie ragioni - difficilmente possono convivere
all'interno dello stesso movimento in quanto puntano verso strade completamente
divergenti.
Fino a quando la società non sarà liberata, qualsiasi
occasione di voto, referendum compresi, non sarà altro che uno
degli strumenti usati dal capitalismo e dallo stato per consolidare il
proprio potere. Anche per questa ragione la scelta della tattica astensionista
è quella che, ancora oggi, maggiormente si addice agli anarchici.
Peppe
Individualità FAI di Pisa
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