Da "Umanità Nova"
n. 21 del 8 giugno 2003
Dibattito referendum 11:
Stemperare l'allarmismo
La recente questione referendum, che ha implicato un certo numero di compagni
in dibattiti più o meno formali sull'opportunità di varcare
le urne, mi fornisce l'occasione per intervenire su argomenti che in realtà
ritengo di portata più ampia e che mi paiono meritevoli d'ulteriore
dibattito e questo sì necessariamente più avvincente e profondo.
Proprio cominciando dal voto referendario e per sbarazzare il campo
da un "dilemma" che ritengo davvero poco significativo premetto che non
considero affatto interessante l'esito del quesito da un punto di vista
anarchico.
Il perché a me pare piuttosto logico ma siccome non è
me che devo convincere riporto schematicamente il ragionamento che faccio:
- gli strumenti che l'ordinamento democratico consente alla società
(i mezzi) sono fittizi e cioè non costituiscono uno strumento d'emancipazione
reale sia in senso riformistico classico e ancor meno in senso autogestionario.
Calandomi nella contingenza di questo voto se il miglioramento tramite
referendum fosse possibile (estensione dell'Art. 18) mi porrei in modo
diverso ma è proprio nella convinzione che il miglioramento non
sarebbe affatto il frutto del responso referendario a consigliarmi diffidenza
verso lo strumento stesso.
Il fatto di vincere o perdere cambia i rapporti interni alle relazioni
tra e con i lavoratori e non lo stato delle cose per la classe oppressa.
A supportare tale tesi basterebbe ricordare i molti precedenti che credo
i compagni conoscano piuttosto bene.
- La differenza che passa tra una rivendicazione sindacale sul posto
di lavoro, supportata da un'azione di lotta diretta contro il padrone,
e una rivendicazione legislativa chiamando in causa direttamente lo stato
è consistente: mentre nella prima opzione si è tutti dentro
un riformismo sì ma di classe (che coinvolge i lavoratori e le
lavoratrici e basta), nel secondo campo ci s'imbatte immediatamente su
un terreno interclassista che mette ogni volta in pericolo il conflitto
appunto fra le classi e cioè espone quella oppressa ad un possibile
ed ennesimo attacco padronale.
Questi sintetici ragionamenti dovrebbero indurre non tanto a considerare
l'eventualità di andare a votare, mossi da una "sensibilità"
rispetto comunque alla delicata fase di lotta in campo sindacale ma a
considerare produttivo e significativo il coinvolgimento di un'organizzazione
anarchica in un ambito più complessivo di lotta rivoluzionaria.
In definitiva un conto è il muoversi all'interno di autorganizzazioni
sindacali con scelte di tipo contingente e opportunistiche (i compagni
anarchici coinvolti sanno benissimo di "lavorare" in un ambito di lotta
meramente riformista), altra cosa è confondere, sovrapporre o coinvolgere
un "agire" specifico che non può che criticare severamente gli
strumenti "apparenti" di democrazia e proporne altri volti all'azione
diretta "contro" e alla sperimentazione autogestionaria "per".
Eppure il dibattito in corso tocca argomenti che vanno ben oltre l'oggetto
del dibattere in se.
Ad esempio una disquisizione sullo stato attuale dei rapporti di forza
istituzionali (Rifondazione, Ulivo, CGIL e destre varie) potrebbe suggerirci
una lettura tutta negativa del referendum ora e della legge d'iniziativa
popolare poi, così come le recentissime tornate amministrative
(province e comuni), che paiono accreditare successi centrosinistri, spostano
nuovamente possibili spinte radicali e di base verso una ragionevole svolta
liberista soft al Quirinale.
Se è vero che la guerra ha appesantito l'insoddisfazione verso
i "tre porcellin" al governo e che una minima, palpabile e necessaria
vittoria (chiaramente simbolica) il vero partito della sinistra (CGIL)
dovrà accaparrarsela, sarebbe opportuno ricordarsi cosa significarono
gli anni Ulivisti per tutti noi.
Non intendo riproporre una concezione di storia banalmente ripetitiva
e legnosa ma è altrettanto ingenuo pensare che una lotta davvero
conflittuale che riguarda ancora una minoranza della società possa
riconfermarsi e consolidarsi in parallelo (senza confliggere) ad una nuova
stagione concertativa e compromissoria.
Ecco perché come anarchici organizzati dovremmo avere la capacità
di inserire la prossima tornata referendaria non tanto nel breve periodo
di vittoria o sconfitta (decorosa o indecorosa che sia) ma piuttosto in
un periodo più lungo di transizione da un governo ad un altro.
Questa visione più relativista potrebbe stemperare un certo "allarmismo"
in seno a quei compagni così sensibilmente impegnati in campo sindacale
e allo stesso tempo principiare un confronto, a mio avviso urgente, sulle
possibilità della lotta di classe di trovare strumenti propri ed
efficaci che non siano solo propaganda e ideologia.
Stefano Raspa
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