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Da "Umanità Nova"
n. 21 del 8 giugno 2003
Dibattito
Elettrosmog e referendum
Non sappiamo come andrà a finire la richiesta di risarcimento danni
avanzata da Giuseppe Carletti, un pensionato di 57 anni residente a Cremona,
che lamenta una dolorosa cefalea associata ad una continua lacrimazione,
provocata, a suo dire, da un trasmettitore di telefonia cellulare installato
ad un metro dalla sua camera da letto. Certo è che l'insorgere
della malattia, diagnosticata ufficialmente dal centro cefalee dell'università
di Parma, data a partire dall'autunno del 1999, quando venne appunto installato
il trasmettitore. Nausea, vomito, cefalea, sbalzi di pressione, ansia
e insonnia, facile irritabilità, da disturbi iniziali si sono gradualmente
consolidati in caratteristiche croniche, conseguenza di "effetti extrauditivi
del rumore" e di "effetti diretti di onde elettromagnetiche".
La vicenda di questo malato di elettrosmog, che potrebbe diventare la
prima vittima "ufficiale" - cioè riconosciuta e sancita da una
Procura della Repubblica (per quanto questo possa valere), si inserisce
in un contesto che vede da una parte l'accresciuta aggressività
delle compagnie telefoniche ed elettriche per assicurarsi quote di mercato
e dall'altra forme di resistenza diffuse (sia con caratteristiche di massa
che non, sia legali che non).
Poiché l'Italia è uno dei paesi che vanta il maggior numero
pro capite di cellulari con una tendenza all'incremento legata ai cellulari
di nuova generazione (UMTS) che abbisognano di nuove reti e di nuove antenne,
per le compagnie telefoniche vi è la necessità di acquisire
luoghi, siti, tetti per la loro installazione.
Il post fascista Gasparri, ministro per le telecomunicazioni, non ha
perso tempo. Prima con il decreto legislativo 215 del 13 settembre 2002,
poi con i decreti attuativi approvati dal consiglio dei ministri del 21
febbraio scorso, le "Disposizioni volte ad accelerare la realizzazione
delle infrastrutture di telecomunicazioni strategiche per la modernizzazione
e lo sviluppo del paese" (questo è il titolo del decreto), si è
dato corpo alla volontà di togliere ai Comuni (che sono sì
elementi dell'organizzazione statuale, ma per loro natura maggiormente
condizionabili dalle istanze della cittadinanza) le concessioni edilizie,
la valutazione d'impatto ambientale, la competenza della gestione urbanistica
che consentiva di scegliere il luogo di installazione delle antenne. Alla
faccia del tanto sbandierato federalismo e a ulteriore dimostrazione della
gerarchia dei valori presenti imperniati sulla libertà d'impresa
a scapito di ogni altra considerazione (in un articolo del decreto si
legge addirittura: "l'operatore di telecomunicazioni incaricato del servizio
può agire direttamente in giudizio per far cessare eventuali impedimenti
e turbative al passaggio e all'installazione delle infrastrutture").
Attualmente sono 24.000 le antenne sui cui "viaggiano" GSM e TACS. Dopo
la gara per gli UMTS, i cinque gestori che hanno vinto ne costruiranno
oltre 40.000: una selva di antenne senza che sia stata prevista la possibilità
o l'opportunità di un loro accorpamento in un'unica rete.
In contemporanea il provvedimento legislativo fissa i nuovi limiti di
esposizione elettromagnetica. Mentre per le stazioni di telefonia mobile,
radio e televisive i valori rimangono uguali al decreto precedente (6
volt/metro per il campo elettrico), per gli elettrodotti che trasportano
la corrente elettrica da una parte all'altra del paese è stato
fissato in 10 microtesla il limite all'esposizione elettromagnetica, con
un abbassamento a 3 microtesla per le nuove installazioni.
Valori che consentiranno alle imprese (ENEL in testa) risanamenti quasi
nulli o comunque minimi.
In uno scenario del genere si colloca il referendum del 15 giugno che
si propone di abrogare la servitù di passaggio per gli elettrodotti,
cioè di annullare l'automatismo grazie al quale le aziende elettriche
possono far transitare i loro elettrodotti su ogni fondo e terreno grazie
al meccanismo dell'esproprio previsto dal regio decreto ndeg. 1775, 11
dicembre 1933. In sostanza una piccola zeppa sul cammino dei colossi energetici
che potrebbe avere come sbocco minimalista un processo di monetizzazione
dei terreni, come d'altronde già avviene per i tetti e i solai
sedi di antenne telefoniche in linea col contenuto abrogativo (la difesa
della proprietà privata) oppure, nella migliore delle ipotesi,
potrebbe fornire uno strumento di supporto a quanti si battono contro
la costruzione di nuove linee che non rispettino i criteri di tutela ambientale
e la distanza dai centri abitati. In realtà questo referendum era
parte di una serie comprendente i pesticidi negli alimenti e gli inceneritori
di rifiuti e aveva l'ambizione di porsi come elemento di lotta istituzionale
e democratica sul terreno dell'inquinamento ambientale raccogliendo e
spostando su tale piano le esperienze di lotta di innumerevoli comitati
sorti in questi anni in modo più o meno spontaneo. In sostanza
un'operazione simile a quella che portò al referendum sulle centrali
nucleari dopo che un ampio movimento di lotta, cresciuto sull'onda del
disastro di Chernobyl, mise in discussione quel modello di produzione
energetica. Inutile dire che ogni paragone con la forza di quel movimento
non è possibile: se allora era il modello stesso ad essere in discussione,
oggi è la difesa localistica ad essere elemento prevalente mentre
la critica coerente del modello è patrimonio, purtroppo, di ristrette
minoranze. Il lavoro di sensibilizzazione per un'alternativa che rompa
la spirale dei consumi si scontra continuamente con la richiesta di sempre
più energia. Una richiesta che viene prontamente accolta e strumentalizzata
dalle componenti più progressiste, più avanzate, dello schieramento
parlamentare per puntare non tanto ad una rimessa in discussione del concetto
stesso di sviluppo, ma ad una sua democratizzazione che contenga e razionalizzi
le spinte selvagge del liberalismo, condizionando i processi di privatizzazione
e di deregolamentazione del governo del territorio a favore di una visione
di tipo neokeynesiano. In questo senso il referendum, questo come ogni
altro, diventa lo strumento istituzionale più idoneo per fare risaltare,
aspetti di programma delle forze politiche che sono state ridotte ai margini
del sistema maggioritario, come d'altronde lo stesso Bertinotti recentemente
ha avuto modo di chiarire, raccogliendo a suo modo il messaggio degli
estensori della carta costituzionale che idearono il referendum come strumento
parzialmente correttivo della dialettica parlamentare. Gli anarchici,
che non hanno mai promosso referendum proprio perché contrari a
questa impostazione, hanno chiaro che non è su questo terreno che
si costruiscono rapporti di forza favorevoli ad una reale trasformazione
rivoluzionaria, bensì su quello della crescita dell'azione diretta.
Al più , una parte di loro può avere delle preoccupazioni
di ordine tattico e pensa di utilizzare il referendum, non tanto per gli
effetti pratici che può avere quanto per gli orientamenti e i sentimenti
che comunque rivela, risollevando il quesito che già Camillo Berneri
aveva posto: "l'astensionismo è un dogma strategico che esclude
qualsiasi eccezione tattica?". Da parte mia continuo a ritenere che quando
degli anarchici si sentono permeati da dubbi riguardo la scadenza elettorale
vuol dire che si sta attraversando una fase di grande debolezza nei rapporti
di forza alla quale non ci si può illudere di trovare rimedio ricorrendo
ad uno strumento istituzionale (e nemmeno d'altronde alla semplice mistica
dell'azione diretta). Si tratta piuttosto di continuare a lavorare, affinando
i nostri strumenti di analisi, praticando organizzazione, sviluppando
propaganda, nella consapevolezza che solo un movimento anarchico basato
sulla chiarezza e sulla determinazione può risultare efficace per
la costruzione di rapporti di forza favorevoli alla liberazione sociale.
Massimo Varengo
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