![]() Da "Umanità Nova" n. 22 del 15 giugno 2003 Economia. Il cavallo non vuol più bere L'economia americana. I più recenti dati economici Usa segnalano che l'economia è ancora ben lontana dal mettersi in moto. Gli ordini di beni durevoli per il mese di aprile sono in calo del 2,9%, le richieste settimanali di sussidi di disoccupazione continuano a restare sopra le 400.000 unità, la disoccupazione ufficiale è salita da 6 al 6,1%, la fiducia dei consumatori resta in calo. Lo stesso Greenspan ha pubblicamente dichiarato di temere lo spettro della deflazione, cioè una discesa dei prezzi dovuta ad una forte e prolungata depressione economica, un fenomeno che ricorda da vicino l'incubo spaventoso del '29. Per scongiurare questo avvitarsi dei prezzi verso il basso la politica monetaria della Fed resta particolarmente aggressiva, un po' per la tradizionale preferenza della banca centrale per l'attenzione alla crescita (più che all'inflazione), un po' per lo scostamento molto ampio tra potenziale produttivo e prodotto effettivo richiesto dal mercato. Le politiche monetarie hanno però fallito nello stimolare la ripresa della crescita. Si tratta ora di tentare, possibilmente da qui alle prossime elezioni del 2004, la carta dello stimolo fiscale, con il taglio delle tasse (340 miliardi di dollari in 10 anni) e la spesa pubblica in deficit. L'amministrazione Usa si propone così come la più spregiudicata nell'utilizzo di una versione militarista delle politiche keynesiane. Si trova però di fronte ad un difficile dilemma: la presenza congiunta di un doppio deficit (nel bilancio statale e nel disavanzo commerciale con l'estero) impone una scelta tra la priorità di fare scendere il dollaro (per rilanciare l'export) o difenderne il cambio (per attirare o trattenere capitali). Per il momento sembra che abbia prevalso la tesi di fare scendere il dollaro, per dare fiato alla massacrata industria manifatturiera, e di ricomprare (contemporaneamente) i titoli a lunga del Tesoro americano, per farne salire il prezzo e convincere così i detentori (soprattutto giapponesi e arabi) a restare ancorati alle obbligazioni Usa. Chi perdeva per il calo del dollaro veniva così compensato con l'aumento del valore del titolo e desisteva dalla fuga verso altri lidi. Per il futuro la politica del cambio è più incerta: Bush dichiara, poco convinto, che il dollaro deve tornare forte; Snow , il nuovo Ministro del Tesoro, ammette che va bene così debole. In realtà bisogna anche chiarire un'altra cosa: il dollaro si è indebolito (e tanto) nei confronti dell'euro, ma è rimasto stabile (o si è addirittura rafforzato) nei confronti dello yen e delle altre valute asiatiche che rappresentano circa il 60% del valore dell'import statunitense. Quindi la svalutazione del dollaro ha nel complesso un impatto abbastanza limitato sulla struttura economica Usa, perché riguarda solo il confronto con l'euro e quindi rientra, a pieno titolo, in una coerente guerra economica all'Unione Europea. L'economia europea . I guai dell'economia UE stanno diventando piuttosto seri, soprattutto in una situazione come l'attuale, che vede gli esportatori molto sconfortati dal proibitivo livello di cambio raggiunto dall'euro nei confronti del dollaro. Questo è particolarmente vero per i sistemi nazionali più orientati all'export: di alta qualità (come quello tedesco), o di bassa qualità (come quello italiano). Infatti Germania e Italia hanno chiuso il primo trimestre 2003 con una crescita negativa, solo parzialmente compensata dai bassi livelli di crescita positiva di Francia e Spagna. Nel complesso la UE è salita dello 0,1% nel primo trimestre, ridimensionando allo 0,8% le stime di crescita per l'intero anno. Si spiega anche così il cambio di orientamento della Bce, che ha tagliato due volte i tassi d'interesse tra marzo e giugno e definito un nuovo, confuso obiettivo di inflazione, dopo aver perso almeno due anni nel capire (e ammettere) che l'economia era ormai entrata in una pericolosa recessione. La serie di disastri combinata dal presidente Bce Wim Duisenberg (soprannominato dai giornali "lingua letale") si è arricchito di episodi con la conferenza stampa che ha accompagnato l'ultimo taglio, quando ha confessato che l'attuale cambio euro/dollaro è in linea con i livelli d'equilibrio di lungo periodo, gelando le speranze dei settori esportatori che si trovano dentro una drammatica crisi di vendite. Se è vero che l'attuale livello di cambio è paragonabile a quello medio del periodo 1990-1998 tra l'allora ecu/dollaro, è anche vero che quel periodo non viene esattamente ricordato come il più florido dell'economia europea. La macchina clintoniana aveva bisogno per alimentarsi di un continuo flusso di capitali, che venivano attirati con il miraggio del dollaro forte. L'industria europea orientata all'export aveva così potuto cogliere, sull'altra sponda dell'Atlantico, ma anche in Medio ed Estremo Oriente, occasioni di espansione senza precedenti. Adesso gli americani stanno abbassando la saracinesca, la dorsale pacifica è in profonda crisi di crescita, e anche il governatore della Bce chiude ogni spiraglio per un ritorno a cambi più favorevoli. Non si capisce quindi a che gioco giochiamo. Il patto di stabilità continua a produrre i suoi effetti nefasti, agendo come freno a qualunque tentativo di fare ripartire l'economia attraverso impulsi di tipo fiscale. La debolezza dell'economia continua a rendere necessaria un'ampia gamma di interventi per il sostegno finanziario alle aziende in crisi, mantenendo elevata la pressione fiscale e frequente lo sfondamento dei parametri di Maastricht, anche nei paesi precedentemente considerati virtuosi. La chiusura della Bce su politiche flessibili del cambio sembra funzionale ad un altro tipo di pressione: se l'economia è ferma nonostante i tassi bassi e se il cambio con il dollaro è corretto ai livelli attuali, occorre mettere mano alle riforme di struttura e quindi attaccare l'obsoleto modello di welfare che sopravvive nella vecchia Europa. Quindi mano libera sulla riforma dei mercati del lavoro, per rendere il lavoro una merce come tante, un fattore di produzione normale, un costo variabile. E poi riforma generale delle pensioni, allungamento dell'età per la pensione di vecchiaia, abolizione delle pensioni d'anzianità, abbassamento delle prestazioni previdenziali. In tutta Europa tira la stessa aria, a qualunque latitudine politica si collochi l'esecutivo di governo. In Francia ci sta provando Raffarin, per conto di un centro-destra moderato. In Italia ci sta lavorando alacremente Berlusconi, per conto di un centro-destra molto anomalo. In Germania ha cominciato anche Schroeder, per conto di una coalizione rosso-verde che vuole bruciare il terreno al ritorno cristiano-liberale. In Gran Bretagna Blair ha trovato il lavoro già in buona parte svolto dal ventennio thatcheriano, ma si è impegnato di suo a completare l'opera in campo educativo e sanitario. In tutta Europa si fanno le prove per rimodellare lo stato sociale. Si tratta di raccogliere la sfida: rassegnarsi allo smantellamento o lottare. Le politiche fiscali vengono usate come una clava per stabilire nuovi rapporti di forza tra le classi. Le politiche monetarie e valutarie funzionano da supporto ai progetti economici e sociali delle classi dirigenti. Non esistono scelte neutrali: dobbiamo afferrare "quello che c'è dietro" e comportarci di conseguenza. Soltanto una scala continentale delle lotte e dei movimenti di opposizione al taglio del welfare può arrivare a risultati concreti, a mettere in difficoltà gli avversari, a coagulare una massa critica sufficiente per bloccare i processi in corso. Renato Strumia
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