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Da "Umanità Nova" n. 22 del 15 giugno 2003

Dibattito referendum 17:
Anarchismo: la forma è sostanza



Che fare, come fare

Il 15 giugno gli italiani saranno chiamati ad esprimere un sì o un no ai quesiti dei referendum proposti. L'argomento non ha destato grande interesse né da parte dei media, né da parte dell'opinione pubblica ormai troppo assuefatta alla ritualità referendaria. Il meccanismo infatti, è sempre lo stesso: alcune forze politiche (parlamentari o no) promuovono una pletora di quesiti sui più disparati argomenti, raccolgono le necessarie 500.000 firme (e non è cosa molto difficile!) e quindi consegnano il tutto alla Corte di Costituzionale che, esaminati argomenti e quesiti con metodo sicuramente più politico che giurisprudenziale, ne ammette o meno il referendum. Da questo momento in poi si assiste alla composizione, dapprima sfumata, poi più nitida, degli schieramenti dei partiti parlamentari e di altre forze della cosiddetta "società civile" che usano i referendum per ovvie motivazioni di visibilità, affermazione e collaudi di futuri schieramenti elettorali. Anche questa volta i quesiti sono un perfetto cocktail di abilità giuridica e furbizia "all'italiana". Quel genere di astuzia politica lasciato in eredità da tanti anni di Democrazia Cristiana produce i suoi frutti: vengono chiamate a votare milioni di persone, gli argomenti sono di grande importanza e gli effetti delle abrogazioni potrebbero essere imponenti ma è solo un'apparenza. Infatti, i quesiti referendari non richiedono di esprimersi a livello di impostazione generale, su grandi scelte strategiche o grandi questioni dirimenti: la croce sul "sì" andrà a togliere una parola, una punteggiatura, al massimo un comma, scelti in modo tale da alterare o rovesciare il senso della legge esaminata. In questo modo i quesiti risultano complessi, illeggibili, degni dei più grotteschi legulei. È chiaro quindi come quesiti di questo tipo siano funzionali a sfumare le posizioni politiche, a essere utilizzati come merce di scambio, a creare palesi o occulte alleanze tra le forze in campo. Inoltre, si crea una complessità giuridica tale che, a prescindere dal risultato della consultazione "popolare", le leve delle decisioni tornino tempestivamente al parlamento e al governo che possono riportare tutto allo stato originario o inserire modifiche a piacere. Insomma, il massimo risultato che un referendum riesce a produrre è un corpus giuridico tagliuzzato e ricomposto mediante assemblaggio di parti diverse, una sorta di mostro di Frankestein che, appena generato torna dal suo creatore: il potere politico. Il referendum sullo Statuto dei Lavoratori sembra una spallata verso la completa trasformazione del mercato del lavoro in chiave liberista. In realtà questo "Art.18" è, almeno per certi versi, una scatola vuota: la precarizzazione in atto da tempo ha creato e ampliato categorie di lavoratori che non rientrano nella sua tutela (interinali, "co.co.co.", soci lavoratori delle cooperative) e comunque non ha mai, di fatto, garantito il reintegro a nessuno, tutt'al più un modesto risarcimento economico. Eppure l'emotività (rispettabilissima) che l'argomento suscita provoca in molti un sussulto, un moto di ripulsa che tende a riportare sul tavolo la discussione, o almeno il dubbio, riguardo alla consueta impostazione dell'astensionismo anarchico. Così si pensa al dovere politico di difendere comunque un diritto conquistato a fatica da chi ci ha preceduto, indipendentemente dalla reale dimensione numerica del problema. Si pensa che la lotta contro la precarizzazione del lavoro e contro la deriva destrorsa dell'Italia può passare anche da qui. In tutto ciò può esserci del vero, eppure ancora una volta, non andremo a votare.

Il nostro astensionismo non proviene da un malinteso senso di purezza che non ci interessa, né tantomeno, da calcoli probabilistici sulla riuscita o meno dell'azione. Il pragmatismo (votiamo per ottenere o salvare comunque qualcosa) e il velleitarismo (votiamo sapendo di perdere ma per essere comunque presenti) sono due lati simmetrici di un'azione che stride con il contesto degli ideali libertari. La giusta concezione che ogni diritto conquistato o difeso è comunque un passo verso un obiettivo più grande, non può essere motivazione sufficiente per sposare un'azione (il voto) che appartiene a una pratica di fatto autoritaria.

Se è vero che una società emancipata, la giustizia sociale, si costruiscono passo dopo passo, che ogni giorno dobbiamo attuare quella che abbiamo sempre chiamato "la propaganda dei fatti", che la partita si gioca su tante piccole e grandi cose quotidiane compiute in direzione di un'idea, allora sappiamo che tutto il nostro agire si estenderà su un amplissimo arco di tempo e che, quindi, la prima cosa (dopo l'idea), che ci caratterizzerà non saranno gli obiettivi raggiunti (magari con qualche escamotage), ma l'insieme delle azioni fatte, l'atteggiamento avuto verso la realtà, in una parola: il metodo. La componente educativa alla libertà (nel senso di e-ducere trarre fuori) verso noi stessi e gli altri che deve permeare l'azione anarchica non trova spazio nel voto referendario che è l'esatto opposto di un gesto rivendicativo e consapevole. A questo punto, scartata l'ipotesi "voto", resta aperta la questione sul "che fare?", su cosa proporre in alternativa e di sicuro non c'è (né ci può essere) una risposta univoca ma una cosa è certa: ogni ragionamento sul "che fare" porterà inevitabilmente ad analizzare il "come fare" e viceversa, perché qualunque sia la nostra idea di anarchia questa parte dal profondo di noi stessi, è quasi un'energia, a volte un sentimento, e allora, se non possiamo non dirci anarchici non possiamo non agire come tali e quindi, il "cosa" e il "come" sono lo stesso problema e la stessa soluzione.

Luca Perricone

 

 

 

 

 

 

 

 


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