Da "Umanità Nova"
n. 22 del 15 giugno 2003
Dibattito referendum 18:
Un sì per non arretrare
Non è facile prendere posizione a favore del Si, e quindi scegliere
di andare a votare il prossimo 15 giugno. È una posizione scomoda,
stretta fra un astensionismo storico, ideologico e politico, in molti
casi argomentato con ragioni incontrovertibili, e le posizioni di una
"sinistra istituzionale" che tutto ha dimostrato in questi anni, meno
che di avere a cuore realmente i bisogni della classe operaia.
L'uso strumentale che Rifondazione comunista per prima ha fatto di questo
referendum è sotto gli occhi di tutti. Un referendum voluto più
nei confronti del "cofferatismo" che un anno fa montava nelle piazze,
che verso quel liberismo che dice di osteggiare, ma che nei fatti quando
sta al governo, con Prodi, o a livello regionale e comunale, sostanzialmente
lo accetta in un modo o nell'altro: dal pacchetto Treu alla destrutturazione
della sanità resa concreta specialmente a livello regionale, ai
bombardamenti sulla Bosnia, e via discorrendo.
Diciamoci la verità: questo referendum è stata una pessima
idea dei rifondaroli sia dal punto di vista tattico che strategico. Nel
primo caso viene usato uno strumento per ottenere 1 (l'estensione dell'articolo
18) con il rischio però di perdere 1000 (una sconfitta rischia
di far saltare i pochi "lacci e laccioli" legislativi che riescono ancora
a contenere a malapena la deregolamentazione del mondo del lavoro imperante).
Mentre dal punto di vista strategico, la chimera di unificare sotto
le sue bandiere rosse la sinistra di classe si è arenata sulle
spiagge balneari verso cui andranno domenica prossima diessini e compagnia
varia, mentre all'orizzonte torna a spuntare il "prodismo" come panacea
dei mali che al centro-sinistra impediscono di sconfiggere Berlusconi.
In più è un referendum che tomo tomo, cacchio cacchio arriva
dall'alto sulle teste dei lavoratori che da anni realmente, senza seguire
scorciatoie istituzionali, cercano di difendere i loro diritti e ricostruire
un movimento operaio conflittuale.
Insomma un quadro generale che ha il sapore forte di una commedia fra
il tragico ed il comico.
A questo punto sembra quasi consequenziale rifiutare il compromesso
referendario, urlare l'interclassismo dello strumento usato, la sua faziosità
e la sua miope strumentalità politica, se non fosse che il prezzo
di una eventuale sconfitta (quel mille di cui si parlava prima) ricadrebbe
solo ed unicamente sulle spalle delle lavoratrici e dei lavoratori. Non
solo meramente in termini materiali dove, l'eventuale sconfitta, non farebbe
altro che accelerare e potenziare ulteriormente il percorso di americanizzazione
del lavoro già in atto da tempo, ma anche in termini di motivazioni
vere e proprie dei lavoratori che si sentirebbero, e sarebbero, ancora
di più in una posizione arretrata di quanto non lo sia quella attuale.
E se fino ad oggi è stato molto difficile difendere i diritti sindacali,
come potrà esserlo domani da posizioni più arretrate?
Il punto centrale di questa campagna referendaria non è il se
e il quanto verrà favorita o meno Rifondazione comunista, un partito
destinato comunque a non arrivare a vedere l'alba del prossimo decennio.
Il punto centrale è come riattivare dal basso le lotte per la conquista
dei diritti sociali, come dare continuità a quel percorso che da
circa un decennio cerca di ridare conflittualità e voce ai bisogni
degli sfruttati. Il punto centrale è come essere presenti nei movimenti
di lotta, con quale consapevolezza, in qualità di portatori di
un pensiero critico e di emancipazione.
Ed in questo è necessario chiedersi di conseguenza quanto possa
influire negativamente l'andare o meno a votare, i risultati del referendum,
la gestione partitica del dopo-referendum.
Inoltre, dati i molti appelli astensionisti fatti dai maggiori partiti
e sindacati borghesi italiani (di centro-destra-sinistra) è molto
facile che il 15 giugno la stragrande maggioranza di chi andrà
a votare sarà composta da lavoratori e da persone (esclusa la sparuta
pattuglia del fronte del no) che hanno a cuore i destini della classe
operaia.
In tale prospettiva, riassumendo, è da notare che:
i risultati negativi del referendum peseranno solo ed unicamente sulla
classe lavoratrice;
l'influenza di una sconfitta avrà un forte potere simbolico negativo
su una classe operaia già fortemente demotivata, confusa e stanca
da un decennio di arretramento inarrestabile;
la maggior parte di coloro che andranno a votare per il Si sarà
composta da lavoratori.
Si deduce che questo referendum ha acquistato una valenza che va al
di là del semplice strumento di delega istituzionale e interclassista,
e che la marcata sproporzione fra le conseguenze dei due differenti risultati
lo fa diventare un passaggio obbligato e simbolico per una ripresa della
conflittualità di classe, ed il fatto di votare Si diventa, in
questa prospettiva, una chiara denuncia sia delle scorciatoie istituzionali
che delle strumentalizzazioni politiche.
Non lo abbiamo scelto noi anarchici questo referendum. Non siamo impegnati
nei comitati per il Si, ma nella lotta sociale e sindacale. Non abbiamo
fatto i banchetti per la raccolta delle firme, ma abbiamo costruito e
partecipato dal basso alle lotte, cercando di renderci visibili e portando
un messaggio chiaro di autorganizzazione ed emancipazione. Cose che abbiamo
fatto anche quando abbiamo partecipato a scioperi, manifestazioni o Social
forum vari di cui avvertivamo tutto il peso strumentale e meramente simbolico.
Anche quando questo ci portava a rischiare in prima persona, come militanti
e come organizzazione politica, di apparire agli occhi dei più
i "cattivi di turno" che spaccano ed incendiano tutto. Non ci siamo tirati
indietro, siamo riusciti a stare al gioco, a non farci gestire dal gioco,
ad utilizzare il gioco.
E questo perché non siamo degli sprovveduti nati ieri, ma siamo
dei militanti che da qualche anno a questa parte hanno avuto la capacità
di mettersi in gioco, di cercare di rendere visibile e comprensibile il
nostro impegno individuale, collettivo ed organizzato nelle lotte sindacali
e sociali.
E questo non è poco, anzi è tanto, tantissimo dati gli
scarsi strumenti a nostra disposizione e le molte attenzioni negative
che riceviamo puntualmente da parte di istituzioni, partiti, sindacati
e polizie varie. Con tale consapevolezza non possiamo farci spaventare
da una scelta quale quella di mettere la croce su di una scheda, perché
sappiamo che è un fatto che non può condizionare le nostre
idee, ma può condizionare pesantemente il quadro sociale dove siamo
quotidianamente chiamati ad impegnarci. Qualcuno ha detto che il 15 giugno
prossimo dobbiamo turarci il naso ed andare a votare Si, parafrasando
la famosa frase del borghese Montanelli che sceglieva di votare DC.
Il 15 giugno prossimo non si tratta di votare DC, né tanto meno
Rifondazione comunista, e non si tratta neanche di turarci il naso, non
perché ci piaccia l'odore delle istituzioni e del liberismo, ma
perché dobbiamo sentire tutta la puzza di una cancrena sociale
che sicuramente peggiorerà nel caso di una sconfitta dell'estensione
dell'articolo 18.
Giordano Cotichelli
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