Da "Umanità Nova"
n. 23 del 22 giugno 2003
Morire in Babilonia
Una trappola mortale
L'arrivo in territorio iracheno dei primi 150 militari del contingente
italiano è coinciso con i più gravi scontri registrati dalla
caduta del regime di Saddam Hussein: reparti Usa hanno attaccato e decimato
gruppi di "resistenti" a Duluiyah e Balad, a nord di Baghdad, nei territori
controllati dalle tribù sunnite; a Mosul si sono registrati violenti
scontri tra popolazione e soldati statunitensi, mentre due attentati hanno
messo fuori uso un importante oleodotto al nord.
Da quando Baghdad è stata "liberata", non passa giorno che qualche
soldato delle truppe di occupazione USA non perda la vita in Iraq a seguito
di azioni armate compiute da iracheni appartenenti sia alla minoranza
sunnita che alla maggioranza sciita.
Il governo statunitense cerca di minimizzare, accreditando l'immagine
di una sostanziale normalizzazione in atto, turbata soltanto da isolati
episodi terroristici riconducibili a sbandati del partito Baath o ad affiliati
di Al Qaeda; da parte loro molti antimperialisti inneggiano alla nascita
della resistenza irachena.
In realtà, come sovente succede, le cose risultano essere alquanto
più complesse e, per quanto possiamo intuire, ancora assai poco
definite.
Innanzitutto va osservato che appare prematuro parlare di una vera resistenza
popolare, pur tenendo presente che sicuramente riguardo quanto sta avvenendo
nel "dopoguerra" in Iraq permane la stessa disinformazione che ha caratterizzato
il periodo bellico.
Allo stesso tempo si può notare che esistono molte condizioni
favorevoli allo sviluppo di una o più guerriglie interne.
Basta infatti leggere un qualunque manuale politico-militare per rendersi
conto che nell'attuale situazione irachena esistono già le premesse
ritenute generalmente necessarie all'insorgere di un movimento di liberazione
in grado di trasformarsi in lotta armata.
In primo luogo, anche se l'organizzazione militare del regime di Saddam
Hussein era di tipo tradizionale, sicuramente il popolo iracheno passato
in pochi decenni attraverso tre conflitti cruentissimi è un popolo
che suo malgrado ha imparato a convivere con la guerra e che è
stato addestrato a combatterla; inoltre, particolare non secondario, nelle
settimane precedenti l'attacco anglo-americano il regime aveva distribuito
decine di migliaia di armi anche ai civili, armi che nella loro quasi
totalità sono rimaste in mano al popolo.
La persistente struttura sociale in clan, con i suoi governi e milizie
locali, che lo stesso partito Baath dovette assecondare durante gli anni
del potere, per gli occupanti risulta di per sé una realtà
ben più difficile a sottomettere, dopo la loro vittoria militare
sul regime di cartone di Saddam Hussein.
Secondariamente, un'eventuale resistenza armata in Iraq di certo si
troverebbe inserita in un contesto internazionale non del tutto sfavorevole
che vedrebbe il sostegno, aperto o più probabilmente dissimulato,
da parte di Stati dell'area che si sentono minacciati dalla guerra permanente
dichiarata di Bush, ben contenti di vedere truppe americane impantanate
in una dura e costosa occupazione dell'Iraq.
Una tale eventualità, vedrebbe prevedibilmente degli atteggiamenti
in qualche modo di solidarietà da parte delle più diverse
organizzazioni antimperialiste, ma sarebbe vista con malcelata soddisfazione
pure da quegli stati europei che si sono opposti alla politica statunitense.
In terzo luogo, un movimento di resistenza anti-USA da un punto di vista
ideologico troverebbe consistenti basi sia nel nazionalismo umiliato dall'occupazione
straniera che nei sentimenti islamici offesi dalla profanazione di numerosi
luoghi santi da parte delle presenza militare occidentale.
Per questi motivi, l'amministrazione americana si trova ad affrontare
uno scenario tutt'altro che rassicurante, dopo una vittoria militare spettacolare
che a tutt'oggi consente un limitatissimo controllo territoriale.
Se infatti il fantasma della resistenza dovesse concretizzarsi, implicando
maggiori perdite tra i soldati USA, immediatamente riprenderebbe vigore
l'opposizione antiguerra in America ed il governo si troverebbe obbligato
a rafforzare ed inasprire l'occupazione militare, rischiando una pericolosa
spirale.
Da qui ecco le mosse preventive di Washington sia sul piano interno
che esterno: annientare preventivamente ogni focolaio di rivolta, attribuire
alla fantomatica "internazionale del terrore" ogni manifestazione, armata
e non, di ostilità verso i soldati americani allo scopo di non
riconoscere una resistenza da parte dei "liberati" e, allo stesso tempo,
minacciare il regime iraniano per il suo appoggio agli sciiti iracheni.
Forse è questa la guerra globale, ma potrebbe anche rivelarsi
una trappola globale.
KAS
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