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Da "Umanità Nova" n. 25 del 6 luglio 2003

Lo stupro uniforme



"Si è parlato per lo più del numero degli stupri, di maschi stupratori, di aborti, di figli, di armi e di crimini di guerra: e la donna dove è finita? dove è visibile il suo essere, il suo pensiero, il suo corpo ferito, la sua tragedia, la sofferenza che l'accompagnerà tutta la vita, la sua possibilità di esistere come soggetto durante e oltre la guerra?"
(Marina Padovese, da "Donne contro la guerra", 1996)

L'articolo di Rosaria su queste pagine (UN del 22 giugno) riguardante lo stupro e la morte di due ragazzine irachene, vittime sia dell'occupazione militare Usa che dell'oppressione religiosa, meritava - non me ne voglia la redazione - la prima pagina del nostro giornale, non per strumentalizzare politicamente una tragedia umana di due giovani donne, ma in quanto tale fatto é per molti aspetti paradigmatico.

Lo stupro, è innegabile, appartiene alla storia di tutte le guerre e del militarismo, così come alla cultura di potere maschile, ma assume altresì un significato ancora più lacerante quando è compiuto da soldati appartenenti a contingenti militari che di continuo la propaganda vuole presentarci come democratici, umanitari, pacificatori e in difesa dei diritti dei deboli.

Invece puntualmente in questi decenni abbiamo visto che dalla Somalia alla Jugoslavia, dall'Afganistan all'Iraq, le truppe delle missioni di pace - con o senza mandato Onu - si comportano non diversamente dalla peggiore soldataglia mercenaria o da una irregolare banda tribale.

Lo stupro appartiene intrinsecamente all'essere militare in guerra e sovente è una "pratica" persino pianificata dai comandi, così come si potrebbe ordinare un attacco o una ritirata.

E che, nel 2003, tutto questo faccia ancora parte degli eserciti degli Stati che si considerano più moderni, civili, liberi e democratici, la dice certo lunga: il militarismo, con la sua logica e la cultura, evidentemente è anche stupro, è sopraffazione di genere.

Non si tratta di casi sporadici, di azioni commesse da pochi depravati; basti ricordare i soldati italiani, dalla maschia faccia pulita, responsabili di aver violentato giovani donne somale e di aver torturato alcuni prigionieri. E le loro dichiarazioni erano sconvolgenti, sia perché la donna somala per loro contava meno di nulla sia perché tutto sommato ritenevano quasi come uno scherzo da caserma aver fatto cose aberranti come violare intimamente una persona con una granata e fotografarla per poi riderci sopra con gli amici una volta tornati a casa.

E dietro questo orrore "normale", si stenta a comprendere che l'uniforme che lo Stato consegna ad un uomo, con i suoi meccanismi di subalternità e dominazione, è il più micidiale coagulatore di ogni genere di violenza, in quanto ne assicura l'impunità al punto da far diventare l'assassinio una professione ammirata e retribuita, e permette all'uomo di esercitare senza più filtri le sue tendenze oppressive-distruttive nei confronti dell'essere donna.

In tale contesto la tanto propagandata presenza femminile all'interno delle forze armate, non solo non modifica tale struttura gerarchica e sessista, ma finisce solo per essere l'alibi per continuare ad annientare gli inermi e a difendere i potenti.

Per questo il nostro radicale antimilitarismo è tutt'altro che anacronistico e diviene critica antiautoritaria generalizzata.

Sandra K.

 

 

 


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