Da "Umanità Nova"
n. 27 del 7 settembre 2003 I due Vietnam di Mr Bush
La guerra infinita in Iraq ed Afganistan
Chissà se Che Guevara avrebbe mai immaginato che il suo appello agli
antimperialisti e ai rivoluzionari per "Crear dos, tres, muchos Vietnam", dopo
circa quarant'anni, sarebbe stato realizzato da un governo Usa infilatosi
dentro due guerre infinite in Afganistan e Iraq da cui è impossibile
intravedere una via d'uscita, mentre negli Stati Uniti sta calando
vertiginosamente il consenso verso dei conflitti che erano stati motivati dalla
propaganda governativa e dalla retorica patriottica come "guerre preventive
contro il terrorismo".
Infatti, sia gli obiettivi dichiarati ad uso e consumo dell'opinione pubblica,
quali l'eliminazione di Bin Laden e Saddam Hussein o la distruzione delle armi
di distruzione di massa, che quelli effettivi dettati dai diversi interessi
strategici, appaiono tutt'altro che raggiunti e consolidati, tanto che gli Usa
e i loro alleati non controllano militarmente né l'Afganistan e l'Iraq,
non riescono ad insediarvi governi affidabili e fedeli e non sono in grado di
garantire la necessaria pacificazione territoriale indispensabile
affinché i grandi gruppi economici capitalisti possano compiere i propri
investimenti per costruire oleodotti, sfruttare e gestire le risorse
petrolifere, aprire nuovi mercati, avviare una proficua ricostruzione.
In Afganistan dopo diciotto mesi dalla caduta del regime talebano, la
realtà della "vittoria" americana sul terrorismo sta mostrando tutti i
suoi limiti: la situazione economica sta precipitando e la guerra interna non
si è mai interrotta, una guerra che gli Usa, presenti con appena 7.000
militari, hanno ormai rinunciato a combattere mentre le previste elezioni
democratiche per il giugno 2004 hanno il sapore della beffa.
È ormai di dominio pubblico il fatto che i comandi americani hanno
deciso di trattare con l'ex-nemico che, di fatto, controlla vaste aree del
paese a sud-est, al confine col Pakistan, e pare che il Pentagono, rinsaldando
la complicità di un tempo, abbia offerto ai talebani una più
ampia rappresentanza in seno al governo di Karzai - sino alla metà degli
incarichi - per dare voce all'etnia pashtun; in cambio gli americani
chiederebbero in primo luogo la pacificazione del paese, necessaria alla
realizzazione dei grandi gasdotti.
Tali contatti sotterranei determinano però l'ostilità dei vari
signori della guerra che hanno combattuto a fianco delle truppe americane
contro il regime talebano e, per imbonirli, l'amministrazione Bush non ha
potuto che dare via libera alla ripresa della coltivazione, della raffinazione
e del commercio dell'oppio, tanto che quest'anno con circa 2.500 tonnellate di
oppio l'Afganistan è tornato ad essere il primo produttore mondiale di
eroina, come affermato da Adam C. Bouloukos dell'agenzia antidroga dell'Onu a
Kabul.
Il fragile governo Karzai è intanto sull'orlo della bancarotta, incapace
di ottenere dai governatori delle dodici province il pagamento delle tasse
dovute e impossibilitato a pagare persino i propri funzionari e i 100 mila
soldati del suo modesto esercito, in grado di controllare a stento la capitale,
con il sostegno militare dell'Isaf, il contingente internazionale di cui fa
parte anche l'Italia.
La provincia settentrionale di Mazar i-Sharif é controllata totalmente
dal governatore-signore della guerra Abdul Rashid Dostum che rappresenta uno
dei poteri più forti sia economicamente che militarmente. Nel sud, al
confine col Pakistan, nelle aree tribali pashtun regna invece il capo mujahidin
Gulbuddin Hekmatyar alleato dei talebani ancora presenti.
Finanziariamente privo di mezzi, politicamente debole all'estero e in patria,
militarmente inconsistente, il governo Karzai sembra destinato ad un crollo che
riaprirà fatalmente una guerra che gli Usa e gli alleati occidentali
hanno già perso, ma di cui rimangono prigionieri.
In Iraq i costi dell'occupazione Usa risultano ormai insostenibili (solo per il
mantenimento di 148.000 uomini occorrono 4 miliardi di dollari al mese), tanto
che dei 165 mila soldati presenti in luglio si sta procedendo ad una riduzione
che dovrebbe portare ad una presenza di 146 mila, oltre a circa 14 mila
militari "alleati" soprattutto inglesi, italiani e spagnoli.
Soltanto a Baghdad i soldati Usa sono 36 mila, ma non in grado di controllare
la capitale.
Il numero totale dichiarato dei morti americani di questa guerra - compresi
incidenti e suicidi - è ormai prossimo ai 300 (durante la prima guerra
del Golfo i caduti furono ufficialmente 147), mentre fonti ufficiose parlano di
8 mila feriti, di cui molti anche gravemente.
Il generale Tommy Frank ha ammesso che le truppe Usa subiscono quotidianamente
da 10 a 25 attacchi, con circa due morti ogni giorno.
Appare evidente che vi è una guerriglia diffusa, così come una
larga ostilità popolare, che non può essere attribuita soltanto
agli irriducibili del partito Baath, e che coinvolge per motivi anche religiosi
pure gli sciiti, nonostante fossero stati ferocemente repressi dal regime di
Saddam Hussein.
In tale contesto e prevedendo che l'occupazione potrebbe protrarsi anche per 4
anni, l'amministrazione Bush sta cercando di coinvolgere la Nato, magari con la
copertura politica di un mandato dell'Onu, nel controllo militare dell'Iraq e,
parallelamente, sta cercando di creare un esercito formato da iracheni
(compresi gli ex-soldati del passato regime) per fiancheggiare e sostituire i
soldati americani nel controllo di oltre 2000 obiettivi a rischio quali palazzi
istituzionali, caserme, comandi, ambasciate, oleodotti, pozzi petroliferi,
etc.
L'estrazione del petrolio procede a rilento in conseguenza delle interruzioni
di energia elettrica e richiede investimenti per la ristrutturazione degli
impianti degradati dall'embargo e danneggiati dalla guerra, dai saccheggi e dai
sabotaggi; senza parlare dei barili sottratti dal contrabbando. Per questo gli
Usa cercano di coinvolgere le compagnie petrolifere straniere che però
appaiono riluttanti vista la perdurante situazione di insicurezza.
Delle dodici compagnie straniere che, a partire dal primo agosto sino alla fine
dell'anno, saranno autorizzate al pompaggio (almeno 650 mila barili al giorno)
e alla vendita del greggio iracheno, circa la metà sono imprese
"donatrici" della campagna presidenziale di Bush (Exxon-Mobil, Chevron-Texaco,
Conoco-Philipps, Maraton, Valero Energy); inoltre ci sono le europee Shell,
British Petroleum, Total e Repsol Ypf, e la cinese Sinochem.
A metà luglio si è instaurato il governo provvisorio composto da
25 membri, di cui 13 sono rappresentanti della maggioranza sciita, oltre a
sunniti, curdi, cristiani e turcomanni, in gran parte personaggi rientrati
dall'esilio e legati agli Stati Uniti. Anche il segretario nazionale del
Partito comunista iracheno è ministro del consiglio legislativo
provvisorio che ha spiegato la linea del proprio partito dichiarando "Siamo
contrari all'occupazione ma se gli americani si ritirassero subito, senza un
governo di transizione ed un minimo di struttura statale ricostruita, l'Iraq
precipiterebbe nel baratro".
Secondo il governatore statunitense Paul Bremer le prime elezioni democratiche
potrebbero svolgersi a metà del 2004 (ossia prima della convenzione
repubblicana e della nomination presidenziale di Bush), ma da tempo le
autorità americane hanno detto che non accetterebbero un governo a guida
islamica.
Per comprendere il grado di indipendenza del governo provvisorio basti dire che
ha sede nello stesso palazzo che a Baghdad ospita il quartier generale
anglo-americano.
Detto questo si capisce perché, appena due giorni dal suo insediamento,
il palazzo è stato bersagliato con granate anticarro Rpg.
Ma la politica dell'amministrazione Bush, oltre a costare ingenti risorse
finanziarie e costi umani sempre più elevati tra le truppe
d'occupazione, negli Stati Uniti ha determinato ed acuito un durissimo scontro
sotterraneo proprio tra i vertici governativi, militari ed economici, divisi su
le prospettive globali di dominio e sfruttamento.
La stampa continua a fantasticare attorno ai ruoli di "falchi" e "colombe", in
realtà si può intravedere una divaricazione d'interessi tra i
disegni dell'apparato militare, dell'industria bellica e della lobby nucleare
da un lato, miranti a sviluppare una politica di guerra totale e senza
soluzione di continuità, e dall'altro i progetti delle grandi compagnie
petrolifere e dei gruppi interessati alla costruzione degli oleodotti
continentali, che invece necessitano di sicurezza e stabilità
nell'area.
L'amministrazione Bush, fortemente e direttamente legata ai principali gruppi
petroliferi, non appare più in grado di garantire gli affari di tutti i
settori e di tutti i poteri che l'hanno appoggiata e, con ogni
probabilità, anche dietro i dossier segreti, lo smascheramento della
propaganda bellica, lo scandalo del falso traffico di uranio tra Niger e Iraq,
le accuse contro la presidenza, i continui allarmi terroristici di questi mesi,
divampa una guerra interna senza esclusione di colpi che sta dilaniando i
palazzi del potere Usa.
Non casualmente, alcuni osservatori americani, sia riferendosi all'11 settembre
2001 che al black out di ferragosto hanno intravisto scenari da colpo di stato
e parlato di strategia della tensione.
Dal nostro punto di vista, distante dai centri di comando e dalle loro logiche,
possiamo soltanto limitarci a registrare e sottolineare che quanto sta
avvenendo da alcuni anni negli Stati Uniti non rientra nella normale gestione
di un potere che pure non ha mai smesso di ricattare governi e reprimere
insorgenze, intervenire militarmente e combattere guerre mai dichiarate,
instaurare dittature e destabilizzare paesi, eseguire attentati e commissionare
assassinii.
È una continua emergenza che lascia trasparire una crisi senza
precedenti, da basso-Impero.
La gravità della situazione è comprovata da due fatti: da un lato
il tentativo di recuperare e coinvolgere l'Onu, la Nato e l'Europa nella
gestione politico-militare dell'Afganistan e dell'Iraq, dall'altro
l'ostinazione con cui davanti alla cosiddetta opinione pubblica viene negato il
fatto che nei paesi "liberati" crescono resistenze, guerriglie e rivolte contro
i "liberatori".
Uncle Fester
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