|
Da "Umanità Nova"
n. 27 del 7 settembre 2003 L'insegnamento cileno
A trent'anni dal colpo di stato
Negli anni '60 si affermava in Cile il Partito Democratico Cristiano portatore
della parola d'ordine "rivoluzione nella libertà" che tentava di
incanalare su di sé la domanda di giustizia sociale delle masse operaie
e contadine impoverite e di sviare il loro potenziale sostegno alle formazioni
di sinistra, grazie ad una poderosa campagna anticomunista e antisocialista. Il
programma iniziale, basato su riforma agraria e nazionalizzazione delle miniere
di rame, si arenò progressivamente dimostrando la sua funzione
strumentale. Le miniere rimasero nelle potenti mani delle multinazionali
(Anaconda, Kenecott e Cerro de Pasco) e nelle campagne la riforma disattese la
richiesta di terre dei contadini poveri.
La disillusione fece crescere allora l'opposizione che, nel 1970 dopo grandi e
significative battaglie sociali e sindacali, fu alla base della vittoria
elettorale di "Unità Popolare", una coalizione capitanata dal medico
socialista Salvador Allende, formata dal Partito Comunista, dal MAPU e dalla
Sinistra Cristiana. Questo governo nazionalizzò senza alcun indennizzo
le imprese che sfruttavano i giacimenti di rame (grande ricchezza del paese) o
che operavano in altri settori strategici (circa 200 compagnie),
statalizzò le banche private ed il commercio estero e diede impulso alla
riforma agraria favorendo forme collettivizzate di produzione. Insomma una
serie di misure da "socialismo di stato" realizzate sul filo della
legalità costituzionale. Misure che prima ancora di poter dimostrare la
loro valenza, incontrarono l'opposizione dei ceti possidenti che trovarono
comprensione e sostegno nell'amministrazione USA, nel Pentagono, nella CIA e
nelle multinazionali nordamericane, in particolare l'ITT. L'ultradestra si
incaricò di fare il gioco sporco sovvenzionando gli scioperi nei
trasporti che provocarono seri problemi di approvvigionamento nelle
città mentre donne dell'alta e media borghesia davano vita a cortei con
pentole e cucchiai per protestare contro la "fame". In un clima di provocazioni
crescenti l'11 settembre 1973 si produceva il colpo di stato diretto dal
generale Augusto Pinochet, nominato capo di stato maggiore dell'esercito, solo
poco tempo prima, dallo stesso Allende, che confidava in lui, preoccupato
com'era della tenuta "democratica" delle forze armate… Allende sarà
poi ucciso, mentre resisteva con estrema coerenza e dignità, nel palazzo
presidenziale della Moneda, attaccato da aerei e carri armati, e una
repressione violentissima si abbatterà indistintamente su quanti, per lo
più a mani nude, cercarono di resistere, sui militanti politici e
sindacali della sinistra: migliaia furono gli incarcerati, i torturati, gli
scomparsi, i fucilati sommariamente. Lo stadio di calcio di Santiago divenne il
primo campo di concentramento operativo, simbolo di una barbarie testimoniata
da fotografie che fecero il giro del mondo suscitando un'ondata di esecrazione
e di mobilitazione generalizzata. Ci furono anche dei tentativi di organizzare
colonne di combattenti pronte a partire per il Cile, nell'illusione di una
nuova epopea spagnola. Ma il Cile non era la Spagna, e il movimento popolare
cileno pur registrando la presenza significativa di militanti
anarcosindacalisti nelle centrali operaie come di gruppi anarchici, era
ampiamente influenzato dal legalitarismo riformista di marca socialista e
stalinista. Un legalitarismo che fino all'ultimo impedì a Unidad Popular
e al suo presidente di comprendere che un processo come quello iniziato, per
compiersi doveva avere l'appoggio delle masse operaie e contadine in possesso
di quelle armi che andavano sottratte alle forze armate. Attaccare il
privilegio economico senza disarmare l'apparato statale, nella convinzione che
l'autonomia del politico potesse condurre fino in fondo il processo di
espropriazione giocando in punta di lama con i codicilli costituzionali,
è stato il più grave errore allora compiuto. Errore che diede
avvio poi a quella riflessione condotta in Italia da Enrico Berlinguer,
segretario del PCI, sulla necessità del "compromesso storico" tra
comunisti e democristiani, per governare il paese. Secondo il leader del PCI
nemmeno la vittoria elettorale delle sinistre avrebbe potuto modificare
l'assetto di potere esistente e solo un'alleanza con la DC avrebbe dato questi
frutti. In realtà con questa scelta si escludeva ogni via sia pur
minimamente rivoluzionaria, proprio nel momento in cui la spinta del '68-'69
continuava a fare sentire i suoi effetti, si permetteva alla DC, già in
grave crisi, di continuare a essere il centro politico del paese e a
Craxi-Ghino di Tacco di condizionare, con una rappresentanza elettorale poco
significativa, il quadro istituzionale. In sostanza il compromesso storico
prendeva atto della crescente aggressività dell'imperialismo americano
(colpo di stato in Grecia, strage di stato in Italia, colpo di stato in Cile)
che si sarebbe poi ulteriormente manifestato con il sostegno alle dittature
militari in Uruguay ed Argentina, dando però una risposta del tutto
difensiva e liquidatoria di ogni processo di effettiva trasformazione sociale.
Invece di radicalizzare il proprio impegno operando fino in fondo una scelta di
classe, il PCI abbandonava di fatto questo terreno, trascinando alla sconfitta
l'insieme della sinistra politica e sindacale italiana. La reazione
movimentista e lottarmatista che ne seguì non riuscì (e nemmeno
poteva) invertire le rotta ed anzi accelerò di fatto il processo di
integrazione di un Partito che si fece stato e punta di lancia della
repressione (vedi 7 aprile e dintorni).
Per chi visse quegli anni la data dell'undici settembre non può lasciare
indifferenti. Essa, al pari del 12 dicembre 1969, segna un punto di non
ritorno. E non solo per le emozioni che gli Inti Illimani hanno saputo
suscitare, quanto per la determinazione a seguire un percorso di giustizia
sociale che solo un processo autenticamente rivoluzionario può
garantire. Oggi come allora.
M. V.
|
|