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Da "Umanità Nova" n. 28 del 14 settembre 2003

Medio Oriente
Senza via d'uscita

"La Road Map è morta", ha sentenziato Arafat, per poi essere calibrato dai suoi collaboratori al fine di valutare le reazioni a questa banalità e capire fino a che punto è possibile spingere il braccio di ferro con il suo governo, con la controparte israeliana, con il padrino americano dell'area e con i suoi avversari politici islamici.

Già su queste colonne, nei mesi primaverili addietro, avevamo prefigurato l'aborto del piano di pace, che ricalca nelle linee di contenuto e nella metodologia di approccio il già deceduto piano di Oslo I e II con annessi e connessi. In questi ultimi mesi, la guerra irachena disegna uno scenario geopolitico dell'area che apparentemente non segnala alcun cambiamento nel duro confronto arabo-israeliano: il dato di fatto dell'occupazione militare prosegue, con le tattiche di dissimulazione di questo "peccato originario" che sui media diventa l'assedio palestinese agli ebrei minacciati di essere ributtati a mare, perché dal Mediterraneo al Giordano non c'è posto per i giudei, come recita ancora qualche santone islamico nei paraggi della Jihad e di Hamas. Tuttavia, Jihad islamica e Hamas sanno che questa presenza indesiderata è stata rafforzata, caso mai ce ne fosse stato bisogno, dalla II guerra del golfo, con le sue ripercussioni sui governi arabi sempre più isolati e ammutoliti, presi nella tenaglia tra un fantomatico bin Laden che li costringe su un terreno preelitario di cui i governi arabi moderati e non farebbero benissimo a meno, essendo già pervenuti al potere, e spesso con l'aiuto decisivo degli Usa (vedi Egitto e Giordania, ad esempio), ed una lotta al terrorismo internazionale che usa i classici metodi statuali, quindi violenti, per destabilizzare una regione, controllarne le risorse e le opportunità di sviluppo, anche politico, condizionare le mosse possibili sullo scacchiere da parte di ogni attore, e infine ribadire la proprio leadership globale.

Nulla di tutto questo viene detto sulla Road Map, che non funziona nemmeno come de-escalation bilaterale, tanto è sbilanciata a favore dell'attore vincente sul campo, ossia Israele. Vero è che il governo israeliano è sempre più indebolito dalla crisi economica, che compensa con gli aiuti americani di una economia di guerra quale è da molti anni l'unica democrazia vanto dell'area, però la strategia di incancrenimento del conflitto giova sempre a una fascia più ristretta di popolazione ebrea, messa a dura prova dallo stillicidio di morti saltati per aria dai kamikaze islamici. D'altra parte, se non vanno allo scontro con una élite islamica radicata e danarosa, Arafat e Abu Mazen (o chi per lui) si trovano a opzioni limitate di controllo dei contendenti sul campo di battaglia; la guerra civile palestinese segnerebbe la fine dei sogni per l'élite nazionalista, mentre per quella islamica quello scontro sarà l'ennesimo segno di una guerra globale agli eretici del proprio mondo arabo e musulmano in genere, che a loro dire mina la umma dappertutto, appunto dal Maghreb all'Indonesia. Ed in effetti il vero senso dell'espressione "jihad" (guerra sacra), oltre a enunciare uno sforzo spirituale del singolo credente, designa proprio un conflitto a tutto tondo con nemici eretici e pertanto irriducibili a qualsiasi compromesso ideologico, caso mai solo a quello politico.

Sulla carta, ogni piano di pace nascerebbe da una fiducia tra partner affidabili, il che non è il caso sia dei due antagonisti, sia dei cosiddetti mediatori che tali non sono. E la fiducia è impalpabile, la si conquista sulle strade oltre che nei salotti governatori o in qualche grande albergo all'estero, e soprattutto è una merce rara in politica. Sul piano dei contenuti, la Road Map non offre alcuna soluzione a Gerusalemme doppia capitale, al ritorno o indennizzo dei profughi del 1948, allo sviluppo demografico ed economico delle popolazioni coinvolte nel conflitto, alla ripartizione equa delle risorse, acqua in primis, alla sicurezza militarizzata dell'area per come la concepiscono strateghi di stato in un mondo dominato dal rischio anomalo e asimmetrico che insidia la sovranità storica delle élite di governo.

Detto ciò, forse a nessuno interessa risolvere un conflitto che vede povere vittime poveri diavoli senza voce (i 3/4 dei morti della II Intifada sono arabi palestinesi) e senza diritti in patria, perché vessata da un governo corrotto e bicefalo (nel senso che fa capo a due correnti di corruzione capitanate da due vecchie volpi del levantinismo affaristico e politico, Arafat e il testé dimissionato Abu Mazen appunto). Anche dal punto di vista ebraico, il conflitto rafforza una dimensione teocratica, speculare a quella sciita di un Khomeyni, che già oggi mette in crisi l'edificio laico di una democrazia nazionalista-religiosa, quindi particolare, in cui fede e cittadinanza sono tutt'uno, e gli elettori se ne fanno condizionare come criterio di selezione dei propri governanti, anche se ciò porterà lutti permanenti. Infine, neanche il contesto geopolitico locale e globale offre chance di soluzione, in quanto eliminare dallo scacchiere una pedina quale il conflitto medio-orientale, che sa tanto di qualcosa da assaporare con certezza di esito, al posto di un nuovo piatto fa gustare con sensazione di amara sorpresa, comporterebbe un rischio di novità più temibile della prosecuzione di uno sterminio infinito dal canovaccio già tracciato e così rassicurante che nessuno non dorme per qualche autobus ebreo fatto saltare in aria o per qualche leader assassinato con tre missili da elicotteri d'assalto, in spregio alle norme di diritto internazionale (convenzioni di Ginevra, tanto per dire) con cui il governo parimenti terrorista dello stato d'Israele interpreta la guerra con i palestinesi, facendo così un favore a quella parte di élite palestinese e musulmana che non vede l'ora di proseguire ad oltranza lo scontro armato, tanto la posta in palio non è la pace o un territorio confinato alla maniera dell'apartheid sudafricano, già condannato da quelle Nazioni Unite che oggi lo promettono ai palestinesi, bensì un fanatismo dei corpi e delle coscienze che rappresenta la migliore premessa per un dominio appunto teocratico, in cui allo stato laico e nazionalista si fa illusoriamente baluginare un paradiso ultraterrestre con tante di quelle vergini per gli uomini aspiranti suicidi, per i quali l'effimera gloria della morte è superiore ad una duratura miseria della vita su questa parte del terra.

Salvo Vaccaro

 

 



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