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Da "Umanità Nova" n. 28 del 14 settembre 2003

Costruirsi un nemico
I tanti volti della resistenza irachena


L'attentato che ha distrutto la sede a Baghdad delle Nazioni Unite il 19 agosto, causando anche la morte dell'inviato ONU Vieira De Mello, è stata la più clamorosa delle iniziative assunte fino ad adesso dalla resistenza irachena nei confronti dell'occupazione angloamericana.

Non deve stupire che l'obiettivo sia stata una sede ONU piuttosto che i comandi inglese, americano, polacco, italiano o delle altre truppe presenti sul suolo del paese mediorientale; la sede ONU presentava due grandi vantaggi: era poco difesa e la sua distruzione avrebbe creato un enorme clamore attorno alle capacità dei gruppi diversi che compongono il fronte composito della resistenza.

La scelta di colpire le Nazioni Unite, poi, punisce la scelta di collaborazionismo assoluto con Washington fatta dai gestori del Palazzo di vetro newyorchese. Questi ultimi, dopo essersi opposti all'avvio dell'invasione angloamericana dell'Iraq, hanno trovato il modo di benedirla dopo la sua effettuazione. La risoluzione (votata all'unanimità, compresa la Siria, dal Consiglio di sicurezza) ndeg. 1483 del 22 maggio aveva rimosso le sanzioni all'Iraq, permettendo ai nuovi padroni americani del paese di avviare il piano di sfruttamento intensivo del greggio locale, mentre la risoluzione 1500 del 14 agosto (qui la Siria aveva avuto il buon gusto di astenersi) aveva dato la benedizione della "comunità internazionale" al governo iracheno presieduto dal governatore USA Paul Bremer: Con la stessa risoluzione i signori dell'ONU nominavano una loro missione in Iraq affidandola a quel Vieira De Mello rimasto sepolto sotto le macerie del suo ufficio. L'opposizione franco-tedesca all'aggressione si era sciolta come neve al sole in nome della ricerca di buoni rapporti che non escludessero completamente questi paesi dal banchetto mediorientale, o almeno che gli permettessero di recuperare gli investimenti: per quanto ne sappiamo fino ad adesso fatica sprecata, gli americani sono ben decisi a gestire in proprio l'Iraq, consentendo al più qualche briciola agli alleati "nei secoli fedeli" come (in ordine di importanza) inglesi, polacchi, italiani e spagnoli.

Il risultato finale è stato comunque l'avvallo internazionale delle scelte americane, con un mesto "ritorno a cuccia" dell'ONU che ha così siglato la propria impotenza e la propria inesistenza se non come utile cassa di risonanza delle posizioni di Washington. D'altra parte è anche ovvio che un'istituzione del genere aveva la sua importanza al tempo della guerra fredda come agone di scontro tra potenze militarmente equivalenti e come luogo di composizione diplomatica dei loro conflitti. Nel momento in cui politica, guerra ed economia (strettamente intrecciate tra di loro) sono dominate da un unico protagonista, le classi dominanti americane, è del tutto ovvio che il potere di interdizione e mediazione delle Nazioni Unite abbia perso qualsiasi importanza. Il luogo di mediazione degli interessi delle classi dominanti americane è la Casa Bianca, e siccome sono i loro interessi gli unici ad avere rappresentanza e validità, è il domicilio del Presidente americano a sostituire efficacemente il palazzo sulle rive del fiume Hudson.

Dal punto di vista della resistenza irachena questo vuol dire che le sedi, i convogli e il personale ONU sono diventati obiettivi legittimi, dal momento che questi non sono distinguibili da sedi, convogli e personale delle truppe di occupazione angloamericane. Per quanto riguarda le modalità barbare dell'attentato, queste rientrano nel quadro di una situazione dove la vita umana (anche la propria) ha perso qualsiasi valore, dopo ventiquattro anni di guerra senza fine, la barbarie dell'embargo occidentale e quella più recente dei bombardamenti e delle stragi di civili durante l'aggressione USA-Gran Bretagna.

Il dato paradossale di questa situazione è la composizione della resistenza che, ormai da Maggio, colpisce ininterrottamente i militari occupanti, le infrastrutture civili utilizzate dagli occupanti stessi e gli oleodotto che rapinano il petrolio iracheno. Le vecchie strutture dell'Esercito e gli stessi alti gradi del regime ne sono del tutto assenti, dal momento che è risultato del tutto chiaro come la rapida avanzata delle truppe d'invasione sia stata resa possibile dalla vera e propria vendita del paese da parte di tutti coloro che potevano negoziare qualcosa, i più compromessi una prigionia dorata piuttosto che il via libera per la fuga, i meno compromessi il mantenimento della propria posizione; ricordiamoci che l'attuale capo della Polizia del "nuovo Iraq" è il capo della Polizia del "vecchio Iraq".

Per parte loro i partiti politici organizzati contrari all'occupazione, dagli sciiti (sia i moderati filoiraniani dello Sciri, sia i radicali di al'Dawa) ai comunisti si muovono nel senso di rafforzare la loro presenza sul territorio, organizzare quote consistenti di popolazione e proporsi come forza di contrasto dell'occupazione capace al contempo di trattare con gli occupanti. A me appare del tutto ovvio che, nel giro di pochi mesi gli americani dovranno rinunciare a far guidare il paese dal bancarottiere Chalabi e dal suo Iraqi National Congress che non riscuote alcun successo presso la popolazione locale e dovranno venire a patti con le formazioni sciite, così come hanno fatto nel nord con i partiti curdi. I partiti organizzati, quindi, organizzano proteste di piazza, manifestazioni, anche assalti di massa alle strutture degli occupanti, ma evitano attentamente di farsi coinvolgere in una guerriglia che, portando con se una repressione indiscriminata, li allontanerebbe dall'obiettivo di controllo sociale e politico del paese per il quale si stanno battendo.

La composizione della resistenza irachena non può essere indagata senza tenere conto della struttura clanica della società del paese e dell'uso fatto dalla dittatura del partito Baath di questa stessa struttura. Il governo, l'Amministrazione Centrale e locale, l'Esercito e il Partito, infatti, erano tutte strutture costruite sulla base della predominanza del clan di appartenenza degli Hussein, il clan al Tikriti, e degli altri clan alleati. In particolare le famiglie claniche di riferimento avevano come ubicazione geografica quello che oggi viene chiamato il triangolo sunnita, compreso tra la provincia di Anbar (a ovest e a nord-ovest di Baghdad) nel quale sono comprese le città di Falluja, Balad, Dloiya e Yusufiya, la provincia di Diyala (a est della capitale) dove è compresa la città di Baquba e la capitale stessa. In questa zona sono concentrati i veri perdenti della guerra: i clan spossessati delle loro posizioni di predominanza, gli uomini di affari che hanno perso tutto a favore delle aziende americane che si sono già impadronite dell'intero pacchetto della ricostruzione e che usano come subappaltatrici esclusivamente aziende kuwaitiane, i quadri del partito costretti alla clandestinità e i gestori dell'intero apparato statale (centrale e locale) scalzati dalla dissidenza dorata alla Chalabi a Baghdad, dai curdi al nord, dagli sciiti al sud e dai clan esclusi dal potere saddamita un po' ovunque.

Questi clan, naturalmente, hanno la capacità di mobilitazione di tutte le famiglie che li componevano e di tutta la clientela che ha girato attorno a loro per un trentennio; clientela anch'essa ridotta in miseria e umiliata dagli americani che hanno epurato l'intero apparato amministrativo e militare dalla loro presenza.

Questa composizione, però, riflette solo una parte delle fila della resistenza irachena, anche se sembra essere la più numerosa: a questa si deve aggiungere una dissidenza sociale in via di crescita che si nutre delle condizioni paurose nelle quali vive il paese sotto occupazione: poca acqua e scarsa elettricità, la moneta che ha perso completamente il proprio potere di acquisto, la disoccupazione salita ad otto milioni, cibo e medicine scarsi e il licenziamento in tronco di tutti i dipendenti dell'Esercito e di migliaia di funzionari.

La frustrazione clanica e quella sociale si assomma a quella nazionalista che vede la più completa umiliazione irachena nell'assegnazione degli appalti della ricostruzione, nell'assegnazione ai kuwaitiani di Umm Qasr, l'unico porto del paese e nella penetrazione dei servizi segreti e dell'esercito israeliano all'interno dell'Iraq.

La guerriglia a Mosul, poi, riflette ancora un altro motivo legato alla politica di arabizzazione forzata di quella che tuttora è la seconda città curda del mondo per numero di abitanti. La fine dell'invasione ha lasciato Mosul in mano alle truppe dei due partiti curdi che non si sono fatti il minimo problema a replicare con la pulizia etnica all'arabizzazione condotta dal regime di Saddam Hussein. In questo sono stati più che spalleggiati dagli americani che, comprensibilmente, non hanno certo accresciuto la loro immagine agli occhi della popolazione arabo-sunnita.

La composizione politica della resistenza riflette il caleidoscopio di motivi che la animano; abbiamo infatti rivendicazioni di azioni armate fatte da gruppi islamici legati al wahabismo, assertori della visione fondamentalista ortodossa dell'Islam attualmente al potere in Arabia Saudita ma in versione "antimperialista", il Partito Islamico Iracheno di ispirazione islamista moderata e insieme nazionalista iracheno, che predica la guerra santa contro gli invasori ma si propone la rifondazione di uno stato iracheno e non il ritorno al mitico sultanato delle origini, l'Iraqi National Front of Fadayeen che raggruppa anche molti dei volontari arabi accorsi a combattere contro gli americani e abbandonati alla loro sorte dagli ufficiali iracheni che hanno preferito negoziare la resa con gli americani, e l'Islamic Patriotic Iraqi Resistence Movement che accetta al proprio interno anche militanti di credo sciita.

L'insieme di questi gruppi sostanzialmente costituisce l'espressione di un nazionalismo iracheno a base islamica ma con forti connotazioni per l'appunto nazionali, non confondibile con il modello di lotta agli USA rappresentato dall'Internazionale islamica di Al Qaeda e dai gruppi che a questa organizzazione fanno riferimento (spesso solo ideale nei vari paesi islamici). Non sono in realtà gruppi cosmopoliti e sostanziano il loro islamismo all'interno dello spazio nazionale iracheno.

D'altra parte la complessità del paese dal punto di vista religioso ed etnico e la base clanica della società ha per ora permesso agli americani di evitare la saldatura tra la resistenza irachena e il malcontento sociale che trova ampia espressione all'interno del sud sciita dove vive, ricordiamolo, circa il 65% della popolazione.

La conduzione dell'occupazione da parte degli americani non potrà comunque che radicalizzare questa situazione, anche perché ogni mossa fatta dai nuovi padroni del paese ha come conseguenza quella di fare degli iracheni o dei collaborazionisti degli occupanti o degli stranieri a casa propria. Già oggi l'occupazione militare si presenta come sicuramente prolungata anche perché la strategicità del paese è tale che gli Stati Uniti non possono certo permettersi di abbandonarlo come fecero con la Somalia, e le previsioni di Washington sono quelle di approfondire sempre di più la morsa sull'economia e sulla società irachena, impadronendosi della prima e schiacciando la seconda in una posizione di subalternità totale agli occupanti dai quali deve oggi dipendere per la soddisfazione dei bisogni più elementari.

Giacomo Catrame

 

 



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