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Da "Umanità Nova"
n. 29 del 21 settembre 2003 Afganistan
Il gioco delle alleanze
Mentre in Iraq un attentato tanto
devastante quanto poco chiaro nella sua dinamica falciava la guida
spirituale e ispiratore del maggior partito sciita del paese asiatico,
lo SCIRI (Consiglio Supremo della Rivoluzione Islamica in Iraq),
dall'altro fronte della Guerra Mondiale di Aggressione americana
giungevano novità degne di nota sul rapporto tra gli USA, le
potenze locali operanti in Afganistan e i loro alleati sul campo.
Il giornalista Ahmed Rashid, di nazionalità pakistana
ma prudentemente operante sulla Far East Economic Review, autore di un
pregevole libro sul paese centro asiatico, ha pubblicato notizia dei
colloqui ormai da tempo in svolgimento tra gli Stati Uniti e i
rappresentanti tutt'altro che definitivamente sconfitti dei Talebani.
Negli stessi giorni si è appreso che lo stesso traballante
presidente afgano Karzai e la sua amministrazione che non riesce a
governare niente più che Kabul, aveva iniziato analoghi colloqui
con il partito degli studenti di Teologia.
Come interpretare tutto questo alla luce della crociata americana
contro l'Emirato afgano di appena due anni fa. Se i Talebani
rappresentavano il demonio nel 2001, come possono essere diventati
affidabili interlocutori nel 2003?
I misteri sono presto chiariti; è noto a tutti che il
problema americano in Afganistan avrebbe potuto essere condensato in
due slogan: fine degli attacchi all'occidente e stabilità del
paese al fine degli affari sulla rotta gaspetrolifera. En passant si
trattava anche di stabilire una forza di rapido intervento in Asia
Centrale e di trasformare la vecchia Asia sovietica in un nuovo cortile
di casa propria. Quest'ultimo è l'unico obiettivo che gli USA
hanno finora centrato, stabilendo proprie basi non solo in Afganistan,
ma anche in Uzbekistan, Kirghisistan e Turkmenistan e stabilendo
rapporti diretti anche con i governi tagiko (dove pure i russi
mantengono una propria divisione dai tempi della locale guerra civile
tra ex comunisti e islamici) e kazako.
L'appropriazione del territorio dell'antico Turkestan è quindi
riuscita così come l'obiettivo di minacciare Russia e Cina dai
confini del loro stesso territorio; peccato per loro che la situazione
afgana continui ad essere in stallo e che la valorizzazione di quel
territorio a fini affaristici continui ad essere una prospettiva
lontana.
Perché è avvenuto tutto ciò? Se torniamo
ai tempi della guerra in Afganistan, possiamo trovare una risposta
fondamentale: gli stati Uniti hanno condotto quel conflitto in stretta
alleanza obbligata con quelle potenze locali che oggettivamente sono i
nemici naturali dell'egemonia assoluta di Washington nell'area. Russia,
India e Iran hanno infatti appoggiato l'invasione americana sia
perché non avrebbero potuto fare diversamente visti i rapporti
di forza, sia perché l'invasione stessa avrebbe potuto farli
rientrare in un gioco dal quale l'operato del Pakistan, alleato USA e
creatore dei Talebani li aveva espulsi.
Le uniche credibili forze antitalebane presenti sul campo, infatti,
erano quelle dell'Alleanza del Nord, composte da tagiki e turkmeni,
strettamente appoggiate da Mosca e Delhi. Gli Stati Uniti, dopo la
facile vittoria militare hanno installato un governo a Kabul presieduto
da un Pashtun, ma il potere vero nelle varie province del paese
asiatico è rimasto in mano ai vari capi tribali con le loro
affiliazioni internazionali, senza che gli USA riuscissero a costruire
una situazione differente. Così al Nord l'Alleanza filo russa e
filo indiana ha continuato a controllare il territorio fino a Kabul, lo
squallido generale uzbeko Dostum, autore di mille giravolte e
ultimamente transitato dall'appoggio iraniano a quello russo controlla
l'area di Mazar-i-Sharif, mentre i capi tribali Pashtun controllano il
sud del paese dopo essersi riverniciati da Talebani a campioni
dell'Occidente. Il tutto in un contesto che vede i residui Talebani
saldamente installati sui monti al confine del Pakistan e capaci di
respingere una dopo l'altra ben tredici offensive americane.
Dietro la resistenza talebana continua ad esserci il Pakistan
che sta attuando un rischioso doppio gioco che al momento sembra
rivelarsi vincente: da un lato il presidente Musharraf si è
piegato ad appoggiare l'invasione americana abbandonando a se stessa la
propria creatura talebana, dall'altro, come documentato da Ahmed
Rashid, i servizi segreti pakistani hanno intensificato l'appoggio alla
ricostruzione di un partito armato talebano, usufruendo anche della
situazione delle province tribali del nord ovest del paese dove lo
stato sono i capi tribali e non certo i prefetti di Islamabad.
Allo stesso tempo Hekmatyar, storico capo mujahed, protetto dal
Pakistan ai tempi della guerra contro i russi, abbandonato dai
pakistani dopo la creazione del partito degli studenti di teologia e
passato armi e bagagli con Teheran, nonostante egli sia un sunnita e la
dirigenza iraniana sia sciita, dopo essere stato escluso dal governo
Karzai, ha sottoscritto un'alleanza con gli ex nemici Talebani per
combattere Karzai e gli americani dietro i quali teme si stia
stabilendo l'egemonia tagika sul paese.
Gli Stati Uniti si trovano quindi senza un alleato degno di
questo nome sul terreno: i tagiki maggioritari nel governo sono
filorussi e filoindiani, il Pakistan, alleato locale, appoggia i
Talebani che resistono alle forze di occupazione e l'Iran cacciato dal
vicino asiatico dopo una breve alleanza durante la guerra ritorna dalla
finestra tramite l'alleanza spuria con l'ex beniamino pakistano
Hekmatyar. Non c'è che dire gli americani rischiano di aver
invaso il paese asiatico e di buttarci decine di milioni di dollari per
mantenere le forze di occupazione al solo fine di favorire il ritorno
dell'influenza russa e di quella indiana in un territorio considerato
strategico. Una bella lezione di strategia politica.
Vista la situazione è giocoforza che gli americani facciano
rientrare nel gioco il Pakistan, tutto sommato l'unico attore locale
non strategicamente competitore con loro sul piano globale per
riguadagnare il controllo di una situazione che potrebbe sfuggirgli di
mano. Far rientrare in gioco il Pakistan, però, vuol dire
riconsiderare il ruolo talebano, unica carta giocabile da Islamabad dal
momento che partiti Pashtun credibili a loro alternativi non ce ne sono
e non sembrano nemmeno creabili nel corso dei prossimi anni.
L'alternativa per Washington è quella di un paese in preda al
caos, con un governo capace di controllare solo la capitale, con
l'impossibilità di utilizzarne il territorio per il trasporto di
gas e petrolio e con la prospettiva di mantenere per anni se non per
decenni le proprie truppe a pattugliare un territorio che non
controllano.
Il problema reale adesso per Washington è quello di
condurre un'operazione di recupero ed assimilazione dei Talebani sotto
la propria egemonia senza perdere la faccia con la propria opinione
pubblica e senza scatenare una nuova guerra civile con i tagiki che
controllano il nord del paese. Le sempre più insistenti voci di
una cantonalizzazione dell'Afganistan rispondono a questo progetto che
vedrebbe il territorio del paese asiatico diviso sul modello Bosnia tra
le varie componenti etniche presenti e con un governo federale che in
realtà non sarebbe altro che un luogo di mediazione tra i vari
interessi e la cui unità sarebbe garantita solamente dal ruolo
di cerniera sia militare che finanziario garantito dalle truppe di
Washington e da quelle dei suoi alleati. In ogni caso, in assenza di
finanziamenti veri alla ricostruzione del paese e di un progetto forte
di modernizzazione dello stesso, non sarebbe altro che un rinvio della
prossima mattanza tra i signori della guerra che continuano a
spadroneggiare in Afganistan.
Giacomo Catrame
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