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Da "Umanità Nova" n. 29 del 21 settembre 2003

Clima incandescente
Global warming? Global warning: stop capitalism


Tutti siamo testimoni, dal punto di vista meteorologico, delle fluttuazioni periodiche della temperatura e delle precipitazioni, queste variazioni non risultano però significative rispetto ai valori medi se non confermate nel lungo periodo, solo in questo caso si può parlare di cambiamenti climatici. Dall'analisi dei dati raccolti negli ultimi decenni si deduce, che gli attuali cambiamenti del clima terrestre seguono un andamento più rapido rispetto a quelli che ci si potrebbe aspettare a seguito di cause naturali.
Qualsiasi considerazione relativa al clima terrestre deve comunque basarsi anche su un numero elevato di misurazioni effettuate a livello globale; sarebbe, infatti, più corretto parlare di sistema climatico quale risultato della interazione di diversi processi fisici, chimici e biologici che interessano la superficie terrestre, l'atmosfera, l'idrosfera, la criosfera e la biosfera.
È evidente che è molto difficile stabilire dei rapporti certi di causa - effetto, ma è indubbio che, a partire dal XIX secolo, l'influenza delle attività umane sugli equilibri climatici ha giocato un ruolo di crescente importanza.

Il Comitato Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (Intergovernmental Panel on Climate Change, IPCC) ritiene che la temperatura media del pianeta sia aumentata di circa 0,6°C dal 1861. Inoltre, sulla base delle tendenze attuali di emissione dei gas serra, vi è la stima di un ulteriore aumento della temperatura terrestre tra 1,4 e 5,8° C entro il 2100.
Si presuppone che l'aumento della concentrazione dei gas serra in atmosfera stia causando un corrispondente incremento della temperatura globale della Terra. Si parla di effetto serra per analogia con ciò che avviene in una serra, dove la copertura in vetro permette l'ingresso delle radiazioni solari ma impedisce la fuoriuscita della radiazione infrarossa (con forte potere calorifico) che viene emessa dal suolo e da tutti i corpi che sono stati irradiati dal sole.
Le rilevazioni effettuate hanno dimostrato che negli ultimi 15 anni del XX secolo vi sono stati i 10 anni più caldi di tutto il periodo; il 1998 è stato l'anno più caldo in assoluto (ed il 2003 pare ben avviato per battere questo record).
Dall'inizio della Rivoluzione Industriale, la concentrazione atmosferica dell'anidride carbonica (CO2) è aumentata del 30% circa, la concentrazione del gas metano è più che raddoppiata e la concentrazione del protossido d'azoto (N2O) è cresciuta del 15%.

Ecco uno per uno i sei "imputati" dell'effetto serra:

CO2 - anidride carbonica, il gas che esce soprattutto dai camini delle industrie, quelle di trasformazione e produzione energetica in testa, e dagli scarichi degli autoveicoli.

CH4 - metano, le emissioni di questo gas provengono dal settore agricolo, soprattutto dalle deiezioni animali e anche dalle discariche dei rifiuti.

N2O - protossido di azoto, anche per questo gas sono responsabili l'agricoltura, il settore energetico e i trasporti.

PF - perfluorocarburo, questa sostanza è un clorocarburo utilizzato per la refrigerazione.

HFC - idrofluorocarburo, uno dei principali sostituti dei Cfc, i gas responsabili dell'assottigliamento dello strato di ozono, utilizzato per refrigerazione e condizionamento.

SF6 - esafluoruro di zolfo, un prodotto chimico usato in vari comparti industriali.

Il vapor d'acqua non è stato considerato in quanto le emissioni di origine antropogenica sono estremamente piccole se paragonate a quelle enormi di origine naturale.

Non bisogna, però, dimenticare che anche la deforestazione contribuisce ad aumentare la concentrazione di anidride carbonica nell'aria, infatti i vegetali sono in grado di ridurre la presenza della CO2 nell'aria perché la utilizzano nel processo fotosintetico svolto, oltre che sulle terre emerse, anche dal fitoplancton presente nelle acque oceaniche.
Se la deforestazione avviene tramite incendi intenzionali, come accade nelle foreste tropicali, viene liberata un'ulteriore quantità di anidride carbonica che si aggiunge a quella liberata per cause naturali dalle eruzioni dei vulcani, dalla respirazione dei viventi e dalla decomposizione dei materiali organici.

Se le emissioni globali di CO2 si mantenessero sui valori di questi ultimi anni, le concentrazioni atmosferiche raggiungerebbero i 500 ppm per la fine di questo secolo, un valore che è quasi il doppio di quello pre-industriale (280 ppm).
La situazione potrebbe divenire ancora più delicata per il fatto che molti gas serra possono rimanere nell'atmosfera anche per decine o centinaia di anni, questo fatto, abbinato al lento riscaldamento delle enormi masse delle acque oceaniche, che possiedono una grande inerzia termica, determinerebbe il protrarsi dell'effetto global warming (riscaldamento globale) anche quando le emissioni fossero drasticamente ridotte.

Il Protocollo di Kyoto (1997) impegna i Paesi industrializzati e quelli ad economia in transizione (i Paesi dell'est europeo) a ridurre complessivamente del 5% nel periodo 2008–2012 le principali emissioni antropogeniche dei gas capaci di alterare il naturale effetto serra (questi Stati sono attualmente responsabili di oltre il 70% delle emissioni). Per i Paesi in via di sviluppo il Protocollo di Kyoto non prevede alcun obiettivo di riduzione. In queste regioni la crescita delle emissioni di anidride carbonica e degli altri gas serra sta avvenendo ad un ritmo che è circa triplo (+25% nel periodo 1990-1995) di quello dei Paesi sviluppati (+8% nello stesso periodo).
Di fatto sono passati diversi anni prima che nel novembre del 2001 gli stati partecipanti (assenti gli Stati Uniti) alla conferenza internazionale sull'ambiente di Marrakesh riuscissero a trovare un accordo per l'applicazione del protocollo. L'accordo è costato pesanti compromessi che di fatto rendono molto remota la possibilità di ottenere una riduzione significativa dei gas serra. Comunque, gli stati firmatari devono ratificare gli accordi sottoscritti affinché siano almeno 55 i paesi impegnati e che gli stessi siano responsabili, almeno, del 55% delle emissioni dannose per l'ambiente.
Il 31 maggio 2002, l'Unione europea ha ratificato il protocollo di Kyoto impegnandosi a ridurre dell'8% le emissioni di gas a effetto serra tra il 2008 e il 2012 (rispetto ai valori registrati nel 1990 / UE responsabile del 24% delle emissioni totali).
Gli Stati Uniti, responsabili del 35% delle immissioni in atmosfera, non aderiscono al protocollo di Kyoto e in ossequio alla filosofia ambientalista di Bush (quella che per combattere gli incendi bisogna tagliare gli alberi…) hanno predisposto (marzo 2002) un piano autonomo per "frenare" il riscaldamento del pianeta, piano che, da più parti, viene definito come un "bluff" .

Non dobbiamo stupirci della difficoltà nel rendere operativi questi provvedimenti, in fondo minimali di fronte alla gravità del problema, perché, come sempre avviene negli ambiti decisionali che coinvolgono i vertici istituzionali politici ed economici, sono gli interessi del capitalismo ad affermarsi. Solo se è possibile produrre profitto si prendono in considerazione le energie alternative, le nuove tecnologie, i programmi per uno sviluppo sostenibile. Gli interessi della collettività, anche quando sembrano al centro del dibattito politico, sono sottomessi a quelli dei poteri forti delle lobby economiche.
Uno degli aspetti applicativi che meglio svela la "teoria" che ispira questa forzata sensibilità ambientale è quello dello "scambio" dei diritti di emissione.

Lo scambio dei diritti di emissione è un regime che assegna quote alle imprese per le emissioni di gas ad effetto serra, in funzione degli obiettivi dei rispettivi governi in materia di ambiente. Questo sistema permette alle singole imprese di avere un tasso di emissioni superiore alla quota loro assegnata, a condizione di poter acquistare le quote di altre imprese, con un tasso di emissioni inferiore. Secondo gli ideatori di questo meccanismo, le imprese, motivate dal profitto legato alla rivendita dei diritti di emissioni, svilupperebbero e utilizzerebbero tecnologie pulite.
Sarebbe, a questo punto, interessante capire con quali criteri verranno attribuite le quote di emissione, soprattutto in relazione ai lucrosi affari che si prospettano.

Esiste una relazione tra clima e condizioni economiche delle diverse popolazioni?
Utilizzando, pur con tutti i suoi limiti, come indicatore di prosperità il prodotto nazionale lordo pro capite (si ottiene dal valore totale dei beni prodotti da un paese all'interno o all'estero diviso per il numero di abitanti del paese stesso), risulta evidente che la grande maggioranza dei paesi più poveri si trova nella fascia climatica tropicale, mentre i paesi più ricchi si trovano in gran parte nelle zone temperate. Tra le 28 economie (con popolazione di almeno un milione di individui) classificate come ad alto reddito dalla Banca Mondiale troviamo, nella zona tropicale solo Hong Kong, Singapore e parte di Taiwan, insieme comprendono il 2% della popolazione complessiva classificata ad alto reddito. Quasi tutti i paesi della zona temperata hanno economie ad alto reddito (Nord America, Europa Occidentale, Corea, Giappone) o a medio reddito (Europa Orientale, Cina).
È fin troppo semplice dedurre che i paesi che subirebbero le più pesanti conseguenze di un ulteriore riscaldamento globale del pianeta sono quelli che già si trovano in condizioni di povertà, quelli che non hanno servizi igienici e sanitari adeguati, con elevata densità di popolazione in precarie situazioni abitative.

Ma quali possono essere le conseguenze del cambiamento climatico?
Per quanto riguarda la salute dell'uomo si possono prevedere effetti diretti ed indiretti.

Le temperature estremamente calde aumentano soprattutto i rischi a carico delle persone che presentano problemi cardiaci. Il clima più caldo comporterebbe inoltre una maggiore frequenza dei colpi di calore ed un aumento della diffusione dei problemi respiratori.
Le temperature più elevate aumentano inoltre la concentrazione dell'ozono a livello del suolo, favorendone la formazione. Le statistiche sulla mortalità e sui ricoveri ospedalieri dimostrano chiaramente che la frequenza delle morti aumenta nei giorni particolarmente caldi, in modo particolare fra le persone molto anziane e fra i malati di asma.
Recente la notizia che in Italia nei mesi di luglio e agosto 2003 ci sono stati 4000 morti in più rispetto allo stesso periodo del 2002.
In ogni luogo della Terra, la presenza e la diffusione delle malattie è fortemente influenzata dal clima locale. In effetti molte malattie infettive potenzialmente mortali sono diffuse solamente nelle aree più calde del pianeta. Malattie come la malaria, la febbre dengue, la febbre gialla e l'encefalite potrebbero aumentare la loro diffusione se le zanzare e gli altri insetti che le diffondono trovassero delle condizioni climatiche più favorevoli alla loro diffusione.
Le temperature più elevate possono anche provocare l'aumento dell'inquinamento biologico delle acque, favorendo la proliferazione dei vari organismi patogeni.
L'aumento del calore e quindi dell'evaporazione dai grandi bacini idrici comporta un aumento corrispondente della quantità d'acqua in atmosfera e quindi un aumento delle precipitazioni su alcune regioni terrestri. Le aree poste ad altitudini più elevate dimostrano incrementi più consistenti, al contrario le precipitazioni sono diminuite in molte aree tropicali con incremento dei periodi di siccità. In ogni caso si nota una maggiore intensità delle piogge e dei fenomeni meteorologici più violenti (come le tempeste e gli uragani) con un conseguente aumento delle inondazioni e delle erosioni a carico del terreno.
In Italia, anche eventi non particolarmente intensi provocano frane ed alluvioni, ciò è sicuramente collegato alla cementificazione, al disboscamento, all'abbandono dei terreni collinari, tutte conseguenze di scelte legate alla convenienza economica del breve termine ma assolutamente dissennate in un ottica di difesa del territorio.
Il riscaldamento globale comporta anche una diminuzione complessiva delle superfici glaciali. Le grandi masse di ghiaccio della Groenlandia e dei ghiacciai continentali stanno arretrando notevolmente; ancora da approfondire lo studio del comportamento dei ghiacci dell'Antartide.
L'aumento del volume oceanico a causa della temperatura più alta e lo scioglimento dei ghiacci provocano anche l'innalzamento del livello medio del mare. Negli ultimi cento anni è cresciuto approssimativamente di 15-20 cm.
L'innalzamento del livello del mare potrebbe inoltre provocare una forte riduzione delle zone umide e di acqua dolce e di acqua salmastra, con ricadute sulla pesca e sulle attività agricole, città costiere e numerose isole sarebbero completamente o parzialmente sommerse.
Altro pericolo in agguato è l'invasione di acqua salata nella falde di acqua dolce presenti lungo le coste (per l'Italia in particolare quelle del medio-alto Adriatico, ma anche quelle del basso Tirreno) che potrebbe avere conseguenze sull'agricoltura e sulla disponibilità di acqua dolce.

In molte zone tropicali già si assiste ad una riduzione dell'umidità del suolo che comporta una diminuzione nella resa agricola; molte aree, anche in Europa, sono a rischio di desertificazione, questi danni non sarebbero comunque controbilanciati dalla mitigazione dei climi oggi più freddi.
I deserti potrebbero espandersi in terre ora semi-aride; le foreste, i polmoni della terra, diminuirebbero ulteriormente nella loro estensione; intere popolazioni, ora in regime di sussistenza, non avrebbero più risorse idriche a disposizione.
Non bisogna poi sottovalutare, nell'analisi dei dati, che i valori medi relativi ai parametri climatici globali possono nascondere situazioni locali caratterizzate da picchi estremi (un piccolo esempio italiano: il giorno 11 agosto Torino Caselle, Milano Linate, Piacenza, Verona Villafranca, Brescia Ghedi e Ferrara rispettivamente con +37.1°C, +39.3°C, +40.4°C, +39.0°C, +38.4°C e +39.8°C battono il loro record di temperatura più alta mai registrata).

Gli scenari possono presentarsi più o meno catastrofici ma, proprio perché non si possono escludere, con sufficiente attendibilità, gli esiti peggiori, devono essere valutate ed applicate tutte le scelte finalizzate a "mitigare" il pesante contributo delle attività umane responsabili degli squilibri climatici.
È altrettanto ovvio che le scelte da compiere non sono puramente legate alle analisi scientifiche, ma sono, soprattutto, politico - economiche. Se qualcuno ci chiedesse quanto sia compatibile il modello di sviluppo delle società consumistiche e "divoratrici" di energia, dell'economia capitalista, con il principio dell'equa distribuzione delle risorse a seconda dei bisogni di ognuno, risponderemmo: "nessuna compatibilità!"

Mar.Ta.

Fonti:

  • Le Scienze n° 382 - 396 - 402 - 410 - 412 annate 2000/2002
  • U.N. 37 11/2002  e U.N. 40 11/2001
  • http://cckn_.net
  • http://www.climatenetwork.org
  • http://www.cnnitalia.it
  • www.ipcc.ch
  • http://www.ilmanifesto.it
  • http://www.lanuovaecologia.it
  • www.meteogiornale.it


 

 



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