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Da "Umanità Nova"
n. 29 del 21 settembre 2003 Omicidi familiari
Ci vuole un tabù
Per una decina di anni ho lavorato
in Psichiatria e ho avuto a che fare anche con persone che provenivano
dai manicomi giudiziari. Gli ospiti di questi istituti si possono
suddividere più o meno in tre grandi categorie. La maggior parte
sono malati psichiatrici (quasi sempre con una storia di degenze e di
ricoveri in strutture "civili" alle spalle) condannati per reati
più o meno gravi. Poi ci sono i simulatori (che dopo un po'
sbarellano anche loro o ritornano in carcere). Ed infine gli assassini
per un giorno, quelli senza precedenti psichiatrici o penali, che
finiscono in manicomio criminale dopo aver ucciso qualcuno
(generalmente familiari o conviventi) in seguito ad un litigio o a quel
che si chiama "un raptus di violenza". La maggior parte di questi
delitti avvengono peraltro sotto l'effetto di alcool e psicofarmaci,
molto più raramente sotto l'effetto di droghe illegali (e MAI
sotto l'effetto di cannabis).
Un omicidio di questo genere sembra essere quello di Marie Trintignant
morta dopo le percosse ricevute dal fidanzato Bertrand Cantat, leader
dei Noir Desir.
Questo genere di delitti familiari avvengono in genere per effetto di
due fattori. Il primo è la disponibilità di armi. "L'ora
del scemo viene a tutti", dicono al mio paese - e se si ha un bel
revolver o un bel fucile a disposizione la cosa può diventare
maledettamente pericolosa. È per questo che gli USA hanno il
più alto tasso di omicidi del mondo: la maggior parte sono
l'esito fatale di liti tra familiari e conoscenti. Ed è per
questo che in tutto il mondo i poliziotti sono in testa alla triste
classifica delle violenze domestiche gli uomini armati sono sempre
pericolosi. A questo proposito il caso degli sbirri è
emblematico: già alla fine degli anni Settanta, la rivista
americana "Psychology Today" pubblicò un lungo articolo (uscito
poi anche nell'edizione italiana "Psicologia Contemporanea") sulla vita
familiare dei poliziotti, partendo da una serie di ricerche apparse
negli anni precedenti su varie pubblicazioni specialistiche. Il quadro
emerso dall'articolo era assolutamente agghiacciante. I poliziotti
erano la categoria professionale con il più alto tasso
percentuale di separazioni e di divorzi e numerose statistiche
registravano una frequenza di violenze familiari contro i coniugi, i
figli e i genitori superiore a qualunque altro gruppo sociale (compresi
quelli comunemente ritenuti più a rischio, come gli ex detenuti
e i reduci del Vietnam). Tra i tratti patologici che venivano associati
alla condizione professionale degli agenti, gli psicologi indicavano in
primis l'incapacità di controllare i propri impulsi violenti e
distruttivi, associata ad una percezione personale di onnipotenza.
Completavano l'inchiesta alcune interviste anonime a mogli e figlie di
poliziotti che raccontavano vite fatte di paura. In questi vent'anni la
situazione non è cambiata. Anzi, nel dossier di Amnesty
International dedicato agli Stati Uniti (che indicava nello strapotere
della polizia USA una delle principali minacce per i diritti civili)
viene detto che negli ultimi anni si è registrato un aumento
degli atti violenti dei poliziotti anche fuori dell'esercizio delle
proprie funzioni armi a parte, l'altro fattore è il fatto che
viene comunque tollerato in genere un certo tasso di violenza
all'interno delle relazioni personali ed in particolare del rapporto
uomo-donna. Il mondo è pieno di veri uomini che mostrano la
propria mascolinità a botte - e anche di donne che pensano che
un po' di maltrattamenti siano un segno di virilità. Queste cose
sono tollerate negli ambienti underground e di movimento meno che
altrove, ma non è che non succedano (ne conosciamo di energumeni
che regolano i propri conti a cazzotti e a testate - vero?) invece,
bisognerebbe farne un TABÙ (uno di quei tabù semplici, un
po' da bambini – che funzionano) MAI PIÙ ALZARE LE MANI (se non
per difendersi) per un semplice motivo. Non solo perché la
violenza è una roba da sbirri e perché il nostro
tabù accrescerebbe in generale la dolcezza del vivere (vi
immaginate come già sarebbe tutta un'altra cosa la vita di
movimento?), ma anche perché a picchiare/a picchiarsi si rischia
di far del male vero. Morire per un urto o per una caduta è
dannatamente più facile di quel che si potrebbe pensare - poi si
diventa assassini per un giorno e quando ci si rende di quello che si
è fatto si va di fuori. Preveniamo il dolore - facciamone un
TABÙ pace, fratelli - pace.
peter punkk
PS se qualche anima candida dubitasse del tasso di omicidi familiari
che vedono come protagonisti dei poliziotti, consiglio la rilettura di
qualunque quotidiano del 22 ottobre scorso. Vi sono le cronache di 24
ore di massacri familiari con undici vittime. La mattanza era iniziata
il pomeriggio del lunedì a Reggio Emilia. R. F. aveva ucciso la
moglie, dopo averla torturata ustionandola con l'acido, poi la figlia e
il fidanzato di questa. A futura memoria, aveva ripreso tutto con una
videocamera, suicidio finale compreso. La sera dello stesso giorno, a
Roma A. S. ha ucciso la moglie appena andata a letto e poi si è
suicidato facendo harakiri. La mattina dopo, invece, a Chieri in un
allegro quartiere di villette che si chiama Borgo Venezia
(perché è abitato da immigrati veneti che lo hanno fatto
diventare il più forte bastione locale della Lega) M. A. a colpi
di pistola e di mitraglietta ha ucciso in pochi minuti l'ex moglie, il
cognato, la cognata, un'operaia, la suocera e due vicini. Per
prepararsi alla strage (pianificata in ogni dettaglio) si era fatto un
mix di psicofarmaci - ha preso insieme sedativi ed eccitanti, come i
piloti americani in Afganistan.
Le armi che hanno ucciso queste persone erano tutte detenute legalmente
e i loro proprietari avevano tutti il porto d'armi. I tre assassini
erano un ex colonnello della Guardia di Finanza (R. F.), un maresciallo
dei carabinieri (A. S.) e una ex guardia giurata ( M. A.). Tre
poliziotti.
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