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Da "Umanità Nova" n. 30 del 28 settembre 2003

Riforme istituzionali
Democratura


Non è che la materia costituzionale possa rivestire particolare interesse per un anarchico. La nostra opposizione al potere non ci porta a fare sconti, e, a volte, neanche tanti distinguo: la struttura di comando non si modifica con le riforme, l'oppressione è oppressione comunque si manifesti, il potere si abbatte e non si cambia, ecc. ecc. Capita però, in certi casi, che il nostro modo di vedere le cose debba attenuare la sua rigida ovvietà, soprattutto quando la consueta aridità delle elucubrazioni istituzionali è scossa da un colpo d'ala tale da risvegliare l'interesse, altrimenti distratto, del cittadino comune. E quindi, anche del nostro.
Come si sa, quest'estate, in quel di Lorenzago di Cadore, gli onorevoli Nania, D'Onofrio, Calderoli e Pastore, i quattro autorevoli esponenti del centrodestra che qualche buontempone ha chiamato "saggi", si sono rinchiusi in un maso di proprietà del ministro Tremonti per una partita a briscola, polenta e Cabernet. E già che c'erano, tra una mano e l'altra, anche per riformare lo Stato. Meritandosi così la stima, fra i tanti, dell'on. Andreotti (con il quale stavolta concordo), che reputa impossibile non portare il massimo rispetto a chi ha rinunciato a qualche giorno di ferie per riscrivere la Costituzione. Tale infatti vuole essere il risultato della fatica dei nostri, una riforma istituzionale di portata storica che va a modificare, in punti salienti, il dettato della Carta costituzionale del 1948, e quindi l'organizzazione e il funzionamento della macchina statale. Naturale, a questo punto, che tutto ciò, un certo interesse, lo abbia anche per noi, soprattutto perché pare che, nonostante le solite animosità fra leghisti, fascisti, forzisti e democristiani, un punto d'intesa sia stato raggiunto e quindi, se non ci troviamo di fronte alle solite patacche, che il progetto di riforma vada avanti.

I punti qualificanti sono, sostanzialmente, cinque: la riduzione del numero dei parlamentari con relativa istituzione del senato federale, il ruolo di Roma capitale ed autonomia normativa, la competenza regionale (la famosa devoluscìon) su sanità, polizia e scuola, la nomina della Corte costituzionale, i poteri e le prerogative dei presidenti del Consiglio e della Repubblica. Roba tosta, come si vede, e che solo tali saggi  potevano affrontare con la dovuta dottrina e la serena incoscienza del Giusto.

Se erano scontate le scomposte litigate su Roma ladrona che hanno animato le recenti cronache politiche (non male, comunque, anche se strumentali, gli attacchi di Bossi a preti, fascisti e massoni!), se era scontata l'indifferenza sulla nomina dei giudici costituzionali, se era ampiamente prevista la generale incredulità sulla riduzione del numero dei parlamentari (che infatti è stata fissata, giusto per darsi un tono, per il 2011), se non c'erano dubbi sulla diffusa volontà di un controllo territoriale capillare su sanità ed educazione e sulla esigenza di rafforzare le strutture repressive, meno scontate sono risultate, invece, le proposte che saranno sottoposte al Parlamento sui poteri dei due presidenti.

Occorre, a questo punto, fare un passo indietro.

Inizialmente, quando fu decisa la commissione, si pensava che si sarebbe espressa per un aumento considerevole dei poteri del presidente della Repubblica, a scapito del capo del governo e del Parlamento, tanto che numerosi "commentatori" già ipotizzavano una repubblica presidenziale sul modello francese o americano. Infatti, dato che allora Berlusconi era convinto di vincere a man bassa e quindi pareva orientato a candidarsi a tale carica, era lecito aspettarsi un ampliamento di quei poteri. La bozza di riforma presentata, invece, prevede l'esatto contrario. Da un lato, il drastico ridimensionamento dei poteri del capo dello Stato, che con il contentino di non dover passare da un Castelli per firmare una grazia, non avrebbe più voce in capitolo sullo scioglimento delle Camere e la nomina dei ministri, dall'altro un allargamento delle prerogative del presidente del Consiglio (che d'ora in poi dovremmo chiamare Primo Ministro), che sarebbe svincolato da ogni controllo. Difatti, essendo eletto direttamente e con una maggioranza più ampia dei voti ottenuti, verrebbe legittimato a ricattare la Camera, minacciandone lo scioglimento sul mancato voto di fiducia e costringendola ad una obbedienza supina. E in tutto questo il Parlamento, quello stesso che il povero Andrea Costa voleva conquistare per emancipare il proletariato, non avrebbe neanche il potere di far decadere il primo ministro, rimovibile solo con una nuova elezione, decisa, guarda caso, solo e sempre dal primo ministro. Come se non bastasse, la sostituzione dell'attuale Senato con quello federale, porrebbe fine al bicameralismo, e quindi a quella fastidiosa incombenza di far passare una legge almeno attraverso due istanze.

Sembrerebbe, tutto questo, un prezioso regalo per un Berlusconi sicuro di essere rieletto, felice di estendere a dismisura le proprie prerogative, e di governare, più di quanto già stia facendo, a colpi di maggioranza. Ed effettivamente è probabile che sia anche così, ma una lettura che si fermasse solo a queste considerazioni, peccherebbe, a mio parere, di miopia. E per capirlo, penso che si debba guardare a sinistra, non però ai paventatori di una democrazia messa a rischio da Berlusconi, bensì a coloro che, con la zucca ripiena di buon senso pratico, si apprestano a succedere davvero, prima o poi, al Cavaliere.

Sostanzialmente, infatti, questa riforma, da alcuni definita l'anticamera della dittatura, non dispiace del tutto ad autorevoli esponenti del centro sinistra, soprattutto a molti eredi del centralismo democratico di leniniana memoria. Che vi vedono, e secondo me non sbagliano, le premesse concrete per dare a un paese, che in cinquantasette anni ha visto altrettanti governi, un esecutivo, qualunque esso sia, davvero forte, stabile e autorevole. Talmente forte, stabile ed autorevole, da non potere mai essere messo in discussione, e non solo dall'opposizione che si esprime in Parlamento, ma neppure da quella che, ogni tanto, parte ancora dai posti di lavoro e dalle piazze.

Governabilità..., stabilità..., funzionalità..., ce le ricordiamo queste parole d'ordine dei decenni trascorsi, queste formule di alchimia istituzionale che occupavano a pieno titolo il dibattito politico. Chimere irraggiungibili, costantemente evocate sempre senza costrutto, eppure viste come indispensabile condizione per "far marciare" il paese. E sulla cui necessità confindustria, padronato, sindacati, partiti, forze istituzionali, trovavano sempre l'accordo. E ancora lo trovano. Un accordo trasversale, alla faccia delle tante contrapposizioni su cui è utile far litigare la gente, un accordo strategico, come è strategica la necessità di esautorare, una volta per tutte, quanto ancora si ribella, fuori dai palazzi, ai disegni del potere.

Tanto perché sia chiaro!

Massimo Ortalli


 

 



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