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Da "Umanità Nova" n. 30 del 28 settembre 2003

Linea di confine.
8 settembre: tra le ragioni dell’odio e quelle della libertà


La sera dell'8 settembre del 1943 il generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate in Europa, annunciò alla radio che era stato firmato l'armistizio con l'Italia, la prima delle tre potenze dell'Asse – come è noto la altre due erano Germania e Giappone – ad arrendersi senza riserve.

Un voltafaccia incomprensibile agli occhi dei nazisti e l'inizio di un'ennesima tragedia nella già mostruosa tragedia della guerra. Completamente allo sbando, l'esercito italiano fu scompaginato ed abbandonato a se stesso. Anche Badoglio in quello stesso giorno di fine estate aveva affidato alla propria voce e ad un disco che fu trasmesso più volte il compito di avvertire gli italiani della resa incondizionata agli anglo-americani.

Il 23 settembre fu annunciata la costituzione della Repubblica sociale italiana (denominata formalmente tale il 1 dicembre successivo) e del Partito fascista repubblicano. Visse poco più di 600 giorni l'ultimo esperimento di Mussolini che lo stesso Hitler raccomandò nel tentativo estremo di reggere le sorti di un'occupazione ormai alle soglie della disfatta. I repubblichini raccolsero buona parte dei soldati del regio esercito ormai abbandonato dagli alti comandi che avevano trovato rifugio al sud e li inquadrarono immediatamente nelle file del corpo militare che avrebbe servito per quasi due anni l'ultimo fascismo, certamente quello più spietato. Gli altri, tutti coloro che non preferirono nascondersi e fuggire, opzione peraltro assolutamente legittima in quelle condizioni e in quel contesto storico, scelsero di combattere dalla parte della Resistenza.

La linea di confine viene tracciata a questo punto, e dopo cinquant'anni non sembra che la cartografia della memoria sia disposta ad alcuna rivisitazione, nonostante funamboleschi tentativi di pietire, qualche volta imporre, altre volte negoziare, una riconciliazione impossibile. I fatti inquietano certamente più delle opinioni e c'è un bel dire che la storia va condivisa per poter cercare un comune futuro, che dall'una e dall'altra parte gli sbagli furono numerosi, che le atrocità per mano partigiana si contano come quelle delle Brigate nere e che non è questione di attribuire colpe. I fatti sono quelli che sono e non sembra sia possibile piegarli ad astruse interpretazioni, se non quando la revisione della storia serve la causa dell'ideologia o della politica, se preferite.

Per questo ho voluto cominciare questo intervento riproponendovi semplici avvenimenti. Perché fosse possibile assumere un atteggiamento il più possibile distaccato dinanzi all'oggettività del fatto. Dopodiché lungi da me l'idea di rifilarvi un'analisi storica completamente avulsa dal contesto interpretativo in cui è calato ogni storico, perché è con questa categoria che dovete fare essenzialmente i conti quando vi si parla di memoria e soprattutto di certa memoria, come quella dell'8 settembre appunto, o della Resistenza e quant'altro ancora. Lo storico, non ci sono dubbi in proposito, è comunque chiamato a giudicare perché mai potrà prescindere dalla sua formazione personale, dai suoi pregiudizi, dal sistema di valori condivisi che appartiene alla sua cultura. Non ci sono soltanto gli storici a rimestare nel minestrone di questa parte del rancore nazionale tra italiani, mi riferisco alle specifiche vicende dell'8 settembre, ma anche politologi, giornalisti, scrittori e via dicendo. Pensate quanto poco condivisa è davvero questa memoria che si nutre di un conflitto mai sanato all'interno della stessa identità nazionale, o perlomeno all'interno di una stessa geografia. Del resto, crediamo veramente possibile che non si possa distinguere tra repubblichini e partigiani, dunque tra fascisti e antifascisti, facendo appello ad un perverso modo di intendere la storia come elemento di riconciliazione tra opposti schieramenti in vista di un bene comune identificato a seconda dei casi con la patria o la nazione, secondo quanto continua a sostenere Carlo Azeglio Ciampi, che da bravo liberal-conservatore rilancia l'immagine del soldato italiano come artefice primo della rigenerazione dell'animo degli italiani? Davvero saremmo capaci di sostenere che non c'è differenza tra i valori che la Resistenza recava con sé e l'orizzonte ideologico degli ultimi interpreti di un rinato fascismo delle origini attratto ed affascinato dal mito del guerriero indomito che sacrifica se stesso ritto sulle rovine di un mondo ormai in frantumi?

Purtroppo la confusione, a distanza di mezzo secolo, regna ancora sovrana per una serie di concause che vale la pena di riproporre brevemente. Gli italiani sono davvero incapaci di comprendere e dunque di scegliere, e di questo si tratta se vogliamo davvero chiudere i conti con un passato che ci tormenta senza sosta, perché la memoria di quelle storie è stata travolta da almeno due eventi di una certa rilevanza. Il primo coincide con la sostanziale impunità concessa a quanti si erano ampiamente compromessi, a tutti i livelli dal più piccolo al più grande, con il regime fascista. Venne permesso a certa cultura del ventennio, quella dell'amministrazione pubblica per dire della più importante, mi riferisco alla burocrazia, di transitare con solerzia dal totalitarismo del partito unico alla democrazia dei partiti senza che su di essa fosse possibile esercitare alcun preventivo controllo o apportare alcuna sostanziale modifica. Si permise agli ultimi fascisti di Salò non soltanto di fondare una piccola formazione politica tutta loro – il Movimento sociale italiano che nacque il 26 dicembre del 1946, giusto a ridosso della tanto proclamata Liberazione dal giogo mussoliniano – ma anche di proseguire indisturbati a ricomporre le trame occulte di una "dottrina", che spesso divenne concreta pratica d'azione, destinata a riprodursi fino ai nostri giorni.

Il secondo è rappresentato dalla ideologia resistenziale, una vera e propria rilettura ad uso politico del sacrificio di moltissimi italiani che non necessariamente ritennero di dover essere comunisti per imbracciare il fucile contro nemici interni ed esterni, imposta dal Pci sulla memoria di quegli anni, a eterno riscatto di un ruolo e di una funzione che non furono poi così limpidi. Se da un lato Palmiro Togliatti, all'epoca ministro di Grazia e Giustizia, mandò liberi i fascisti con il decreto di amnistia ed indulto per i reati politici e militari, emanato il 22 giugno 1946, dall'altro la nomenclatura del partito provvide a raccontare a suo modo la storia della resistenza, sacrificando alcuni significativi particolari che avrebbero gettato ben altra luce su quella guerra civile che insanguinò l'Italia settentrionale per alcuni mesi.

Così se ricordiamo, ricordiamo male e all'interno di una memoria che è stata il frutto di un compromesso storico cui Berlinguer non pensò certo per primo.

Ragionamenti scomodi, questi, certo. Perché scomodo è raccontare che ciò che chiamiamo Stato non è altro che il frutto di un accordo per la spartizione di un certo numero di posti di comando dentro ad una serie di specifiche strategie economiche che volentieri il governo di Washington suggerì alle nascenti democrazie parlamentari d'Europa. E altrettanto scomodo è ammettere che la sostanziale continuità con gli apparati del vecchio regime fu, in Italia, necessaria per garantire la riproduzione di delicati equilibri nazionali ed internazionali cui i comunisti di Togliatti non poterono, e non vollero, opporsi.
In questo modo l'8 settembre è davvero linea di confine che separa il passato dal presente senza lasciar sperare in alcun futuro dalle aspettative condivise, come suggeriva recentemente uno storico di casa nostra, poiché quella cesura non vide alcuna rinascita della nazione. Semmai la frattura, insanabile, tra le ragioni dell'odio e quelle della libertà.

Mario Coglitore


 

 



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