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Da "Umanità Nova"
n. 31 del 5 ottobre 2003 Letture: "Lettere d’amore e d’amicizia"
Mattia
Granata (Con prefazione di Maurizio Antonioli), "Lettere d'amore
d'amicizia", BFS ed., Pisa 2002, pagg. 112 con foto, Euro 8,00.
Non capita certo spesso di avvicinarsi alla storia dell'anarchismo
attraverso un qualcosa di così privato come può essere un
epistolario d'amore e di amicizia quale quello raccolto e commentato in
questo libro abbastanza particolare.
La corrispondenza è quella intercorsa tra Leda
Rafanelli, Carlo Molaschi e Maria Rossi, tre figure assai diverse
dell'anarchismo militante ma reciprocamente legate da una profonda rete
di affetti e affini sensibilità in grado di affrontare anche
prove assai impegnative, quali quelle vissute nel travagliato periodo
storico tra il 1913 e il 1919, comprendente gli anni tremendi sia da un
punto di vista umano che politico della Prima Guerra Mondiale.
L'immane strage militarista e la conseguente disumanizzazione
di massa rappresentarono per ragioni diverse un'esperienza lacerante
soprattutto per gli anarchici di tendenza individualista che, dopo aver
visto anche non pochi loro compagni di fede schierarsi su posizioni
interventiste, furono attraversati da una crisi che in se raccoglieva
rancore, estraneità e delusione davanti allo spettacolo offerto
dal massacro imperialista in cui milioni di oppressi recitavano al
contempo la parte delle pecore e dei lupi.
Ogni persona libera e consapevole non poteva non rimanere
attonita ed inorridita di fronte a quello che si presentava la morte di
ogni speranza di redenzione umana e riscossa sociale, ma ciò
doveva risultare ancora meno sopportabile agli anarco-individualisti
che non avevano mai rinnegato il proprio antimilitarismo; i quali non
accettando gli strumenti d'interpretazione legati alla critica
antiautoritaria non disgiunta dall'analisi di classe, vedevano soltanto
il disperante naufragio dell'eterno spirito ribelle dell'Uomo e della
"fede nel superamento umano" come ebbe a scrivere Molaschi.
Per lui infatti era come risvegliarsi in un immenso cimitero e
sulle lapidi di tale selva di croci si poteva leggere: "Qui giace il
superuomo, qui giace la vita pura, qui giace la libertà, qui
giace la nobiltà, qui giace la fraternità."
Persino la primavera, ai suoi occhi, era "stata uccisa con i
milioni di cadaveri ammucchiati dalla guerra" e, senza riuscire a
comprendere il volontarismo dei rivoluzionari al fronte, osservava:
"intanto i ribelli diventano 'arditi', e io ardito non lo sarò
mai".
Ma oltre alle tormentate testimonianze di Molaschi, che negli
anni seguenti avrebbe fatto parte della redazione di Umanità
Nova approdando infine al Partito socialista, dal libro piacevolmente
curato da Mattia Granata emergono in modo assai suggestivo l'immagine e
la lirica di Leda Rafanelli, la "zingara anarchica" che aveva
abbracciato la religione mussulmana, pur non accettando altro velo che
quello della sua seducente quanto misteriosa personalità di
sovversiva.
Nata a Livorno nel 1880, Leda Rafanelli, pur non avendo
terminato neppure la terza elementare, si rivelò precoce
nonché impetuosa poetessa e scrittrice (i suoi primi versi
pubblicati furono pubblicati quando aveva appena 15 anni!), dopo aver
imparato da autodidatta oltre all'italiano anche l'arabo; protagonista
di svariate iniziative editoriali (Vir, La Protesta Umana, Sciarpa
Nera, La Rivolta, La Libertà), fu tipografa e fondatrice nel
1910 della Casa Editrice sociale, la più importante impresa
editoriale libertaria in Italia dell'epoca.
Assai belle ed apprezzabili - credo - da tutti gli anarchici,
sia individualisti che comunisti, le sue parole messe in apertura del
libro: "Gli anarchici, nella vita, sono dei nomadi. Non seguono quella
tale strada, ma la loro strada".
Ieri come oggi.
emmerre
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