archivio/archivio2003/un01/unlogopiccolo

Da "Umanità Nova" n. 32 del 12 ottobre 2003

Sabbie mobili babilonesi
Gli USA, l'ONU, l'occupazione dell'Iraq


Al momento in cui scrivo gli sherpa del Consiglio di Sicurezza dell'Onu stanno limando una bozza di risoluzione che faccia rientrare alla finestra le Nazioni Unite nella vicenda irachena senza danneggiare gli interessi Usa in corso. Gli oltre 100 miliardi di dollari dell'avventura di Bush & co. in quella regione stanno procurando qualche mal di pancia ai delegati congressuali, in vista di una loro rielezione a fine 2004 in coincidenza con le presidenziali che iniziano a turbare i sogni di Bush figlio, timoroso di fare la fine del padre, sempre a causa di quel "son of bitch" di Saddam dalle mille risorse.
Esportare con la forza la democrazia, sia pure come alibi, si sta rivelando una missione impossibile, come era prevedibile e come la storia ci dimostra. In più, gli affari non scorrono come auspicato, per via di una fastidiosa resistenza armata che senza grossi eventi, attua la tattica dello stillicidio quotidiano un po' dappertutto, rendendo impraticabile qualunque business as usual, come si dice nel gergo degli affari, che richiedono una condizione di relativa calma e sicurezza sul territorio. Significativa a tal proposito l'esplicita ammissione del Segretario al Tesoro, John Snow: "Il Capitale è codardo, non va in luoghi in cui sente di essere minacciato, e le imprese non inviano personale in posti in cui non sono sicuri".

Il petrolio che doveva finanziare la conquista dell'Iraq non sgorga come dovrebbe, sia per gli attentati, sia per condizioni di lentezza con cui si ammodernano gli impianti dopo decenni di sottoutilizzo. I contratti assegnati a Hallyburton (leggi: il vicepresidente Cheney) e a Bechtel (leggasi: vecchia guardia repubblicana, un nome su tutti, l'ex segretario di stato ai tempi di Reagan Shultz) sono ingenti, seguiti da quelli di Shell e BP, ma ancora al palo, mentre proliferano una miriade di studi legali e di consulenza e di mediazione in con partnership tra americani e profughi di lusso iracheni di una opposizione a Saddam composta da fuoriusciti corrotti e mascalzoni anche per i tradizionali criteri truffaldini dell'etica economica levantina.
Una delle reali ragioni per cui gli americani, pur promettendo invano una Costituzione in sei mesi e un governo democratico entro un anno - il testo lo sta scrivendo un docente di diritto di una università americana con la consulenza di qualche iracheno, rovesciando clamorosamente la logica della stesura del testo fondamentale delle istituzioni di potere di una popolazione - sono restii a cedere il controllo politico dell'Iraq legalmente occupato, anche ai sensi di una risoluzione del CdS dell'Onu per cui ha perso la vita de Mello, non è tanto il fattore di sicurezza militare, ovviamente presente a tutti gli attori dell'invasione alla ricerca di una via di uscita dall'occupazione senza perderne i benefici. Lo è invece il timore di vedere interrotto o ritardato il processo di liberalizzazione in corso che mima pedissequamente il cosiddetto Washington Consensus, ossia i dettami che altrove impongono a governi locali le Istituzioni finanziarie internazionali quali il FMI e la World Bank.
Kamel al-Galiani è l'uomo d'affari espatriato tempo addietro che il Governatore della potenza occupante Bremer ha nominato Ministro delle Finanze nel governo provvisorio. Ecco la sua ricetta eteropilotata per far uscire l'Iraq dalla mancanza di cibo, acqua e elettricità disponibili a diversi mesi dalla fine delle ostilità ufficiali per i cittadini iracheni:
proprietà del 100% estera in ogni ambito economico tranne che per le risorse naturali;
proprietà diretta e totale o in partenariato o in filiazioni di imprese estere;
immediata e completa rimessa di profitti, rendite, interessi e dividendi al paese straniero;
privatizzazione assoluta dal comparto elettrico alle telecomunicazioni (il colosso americano MCI, noto alle cronache per la truffa miliardaria che ha fatto rimettere risparmi a intere famiglie di azionisti per scopi fraudolenti da parte dei dirigenti di impresa, sta gestendo una rete sgangherata di telefonia mobile per la quale non ha competenza industriale a detta degli stessi americani), dall'ingegneristica alla farmaceutica, con la previsione di svendere centinaia di imprese statali;
detassazione delle imprese straniere in Iraq, assoluta per il primo anno, e ridotta ad un tasso fisso del 15% per gli anni successivi;
abbattimento dei dazi doganali in ossequio ai principi liberali e protezionistici della Wto. Ai fini della ricostruzione si applicherà solo una piccola imposta del 5% sulle importazioni, ad eccezione dei beni umanitari, degli alimenti, dei medicinali e dei libri.

Come è evidente, si tratta delle disposizioni dogmatiche che NON furono adottate nel piano Marshall americano per la ricostruzione europea, che pure prevedeva un gran bel esproprio di ricchezze vitali e finanziarie a favore delle imprese della nazione uscita vincente dal secondo conflitto mondiale, ossia gli Usa. A fronte dell'enorme quantità di denaro che prenderà la via verso Washington, e denaro non certo arabo ma dell'intera comunità mondiale qualora tutti abboccheranno all'amo del coinvolgimento dell'Onu in questa sporca guerra che traina con sé uno sporco business, come al solito, il destino della popolazione irachena è l'ultima preoccupazione, tanto del vecchio padrone del vapore, l'ex amico Saddam, quanto del nuovo padrone dell'impresa, Bush e chiunque sarà il suo successore in quel cupo covo terroristico che baldanzosamente si ammanta di un intonaco bianco lucente.

Salvo Vaccaro




 

 



Contenuti  UNa storia  in edicola  archivio  comunicati  a-links


Redazione fat@inrete.it  Web uenne@ecn.org  Amministrazione  t.antonelli@tin.it