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Da "Umanità Nova"
n. 32 del 12 ottobre 2003
Afganistan e Iraq
Notizie dai fronti
Sino a
qualche decennio fa nelle botteghe di Kabul o di Kandahar non era
difficile trovare vecchie rivoltelle britanniche, con inciso il nome
dell'ufficiale a cui erano appartenute e che con ogni
probabilità aveva lasciato la pelle nel corso delle tre guerre
sostenute e perdute dagli inglesi in terra afgana; successivamente nei
bazar cominciarono a circolare sottobanco le pistole automatiche degli
ufficiali russi.
Non è escluso che tra qualche anno sia la volta delle pistole
Beretta in dotazione alle truppe d'occupazione Usa; dato che neanche la
prima potenza militare mondiale è in grado di vincere la sua
guerra.
Le notizie provenienti da tale teatro d'operazioni da qualche
tempo risultano sempre più rarefatte, ma da quel poco che
trapela sulla stampa occidentale è facile intuire che la
situazione è gravissima.
Gli scontri armati si susseguono, soprattutto al confine col Pakistan,
e vedono anche il coinvolgimento di reparti pakistani, con l'appoggio
di elicotteri e reparti speciali Usa, contro la guerriglia ormai
endemica in tale enclave pashtun; il regime posticcio di Hamid Karzai
non ha autorità né denaro e collasserebbe in pochi giorni
senza la tutela armata Usa, mentre si parla con sempre maggiore
insistenza di una ripresa dei talebani, peraltro presenti a diversi
livelli nelle strutture di potere del governo "post-talebano".
Le regioni del sud-est, dove è predominante la presenza dei pashtun, sono praticamente off limits.
L'unico potere che conta è quello esercitato dai vari
"signori della guerra" con le loro milizie di clan; Washington, in un
complesso gioco di alleanze temporanee, ha investito milioni di dollari
per comprarne almeno la non-belligeranza ma l'instabilità resta
pressoché totale e i contropoteri tribali sono sempre più
forti.
A riguardo la testimonianza di Abdul Rauf, lavamacchine di Jalalabad,
vale più di quella di qualsiasi politologo: "Gli americani hanno
affidato a questi ladri e criminali la gestione della pace e la
situazione peggiora ogni giorno".
Un colonnello americano della base di Bagram ha dichiarato "Ci troviamo
in zona di guerra non appena lasciamo la nostra base (…) Ci sparano
ogni giorno, molte volte al giorno".
Ad eccezione di Kabul, le truppe di Enduring Freedom raramente
circolano nei centri urbani afgani: per lo più si limitano a
scortare con le armi spianate gli ufficiali statunitensi che transitano
ad alta velocità su veicoli blindati.
La stessa base di Bagram, a poche decine di Km da Kabul, è stata
considerata troppo poco sicura per il Segretario della Difesa, Donald
Rumsfeld, durante la sua velocissima visita di qualche mese fa.
Nei primi giorni ottobre, a Kabul due militari canadesi dell'Isaf sono
morti nell'esplosione di una mina, mentre altri tre sono rimasti feriti.
In un simile contesto è facile capire l'ansia di sganciarsi che
attanaglia il governo Usa; da una settimana all'altra la situazione
potrebbe ulteriormente precipitare e i caduti tra le proprie truppe
moltiplicarsi assommandosi al conto già troppo elevato di quelli
che quotidianamente si registrano in Iraq.
In Iraq peraltro, le difficoltà nel controllare militarmente il
territorio sono ulteriormente dimostrate dalla decisione del governo
Usa di inviare altri 10-15.000 militari di rinforzo; per quella parte
d'America che non ha dimenticato la guerra in Vietnam tale
provvedimento ha un nome inquietante: escalation.
Una parola che in un colpo cancella il trionfalismo del discorso di
Bush dello scorso primo maggio dalla portaerei Lincoln in cui si
cantava vittoria e annunciava la fine del conflitto.
Il budget Usa per le spese militari previsto per il 2004 è infatti stimato in 368,6 miliardi di dollari.
Al 3 ottobre, la macabra contabilità ufficiale dei
caduti in Iraq per difendere il "mondo civilizzato" informa che i
militari morti della coalizione angloamericana assommano a 365, di cui
314 statunitensi.
Un numero infinitamente limitato se raffrontato ai circa 10.000 morti
civili iracheni sotto i bombardamenti, ma estremamente pesante per una
cultura "vincente" come quella americana fondata - come ha osservato la
scrittrice Susan Sontag - su tre idee fondanti: primo, l'America
è un'eccezione perché ha una storia diversa da tutti gli
altri paesi del mondo; secondo, l'America è sempre buona; terzo,
l'America trionferà sempre.
Uncle Fester
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