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Da "Umanità Nova" n. 33 del 19 ottobre 2003

Medio Oriente
Dr. Stranamore, I suppose


L'attacco israeliano alla Siria, malamente giustificato come attacco a un campo di addestramento di terroristi, è il primo passo della nuova escalation che condurrà nei prossimi mesi a infiammare nuovamente il Medio Oriente, probabilmente con una violenza in questo momento neanche immaginabile. L'attacco alla Siria, già nel mirino congiunto di Tel Aviv e Washington da almeno un anno, è avvenuto dopo l'attacco suicida mosso da una militante della Jihad islamica in un ristorante israeliano. Il copione è stato il solito, ma la differenza per il governo israeliano è data dal fatto che questo attentato è avvenuto dopo la costruzione di una parte consistente del muro di sicurezza che, nelle speranze dello stato ebraico, dovrebbe separare in modo definitivo i territori occupati (dove comunque sarebbe l'esercito con la stella di David a continuare a dettare legge) dal territorio metropolitano di Israele nel quale è stata ormai incorporata la città di Gerusalemme compresa la parte orientale e i suoi sobborghi per una profondità di 32 km all'interno della West Bank, in un punto dove questa misura non più di 53 chilometri.

L'attentato della Jihad per di più è stato compiuto da una militante che veniva dalla città martire di Jenin dove, nell'aprile del 2002 l'esercito israeliano si lasciò andare a una vera e propria mattanza con centinaia di morti tra civili e combattenti. Questo per l'apparato di sicurezza dello stato ebraico vuole dire una sola cosa: neanche i più massicci e titanici tra gli strumenti di difesa possono molto contro un nemico sfuggente, con nulla da perdere e deciso a tutto. Non saranno i raid aerei, la rioccupazione delle città palestinesi, il muro difensivo a bloccare le azioni dei militanti palestinesi contro Israele, anzi, le condizioni sempre più penose nelle quali la popolazione palestinese è costretta a vivere diffondono il messaggio oltranzista di Hamas e della Jihad islamica ben di più di quanto non potrebbe fare la loro propaganda.

Nel contempo gli Stati Uniti, la cui amministrazione non solo è schierata completamente a difesa dell'operato del governo del Likud israeliano, ma ne condivide ipotesi, strategie e pensatoi (i famosi Think thank neo conservatori americani sono in realtà stati fondati dal Likud israeliano e da settori di estrema destra del partito repubblicano americano), si trovano impantanati in modo simmetrico nel loro protettorato iracheno. I quotidiani attacchi contro le truppe occupanti, l'incapacità di costruire un'amministrazione locale, di riavviare l'esportazione di petrolio e di portare le condizioni della popolazione a livelli accettabili, disegnano una situazione in Iraq analoga a quella degli Israeliani in Palestina.

Il progetto globale per il Medio Oriente costruito comunemente da Israele e Stati Uniti si poggia su tre basi.

La prima di queste è il mutamento di governo degli stati ritenuti pericolosi per il comune intento di controllo delle risorse energetiche e del loro utilizzo come l'Iraq, la Siria e l'Iran; questi stati esprimono (per l'Iraq sarebbe meglio dire esprimeva) l'intenzione di controllo in proprio delle risorse e la volontà di gestire una politica estera indipendente dai desideri di Washington e non sdraiata sui desiderata di Tel Aviv. Questo basta a farne nemici assoluti per i governi israeliano e americano i quali necessitano del controllo sul petrolio per determinare i flussi economici e finanziari mondiali. L'Iran, oltretutto, sarebbe potenzialmente in grado di fabbricare una bomba nucleare, costituendo così un pericolo per la politica espansionista di Israele nell'area. Questo punto va ulteriormente chiarito: nell'era del duopolio mondiale USA-URSS, la deterrenza nucleare creava un equilibrio (per quanto terroristico) che consentiva il non uso dell'arma più distruttiva mai creata dall'uomo, l'attuale situazione dove nessun attore mondiale è in grado di competere con gli Usa sul terreno dell'armamento convenzionale e nessun paese arabo o mediorientale può farlo con Israele, crea le condizioni di utilizzo della bomba nucleare perché quest'ultima si rivelerebbe l'unica arma in grado di infliggere perdite significative soprattutto nei confronti di Israele. Il fatto che quest'ultimo possieda da almeno quarant'anni la bomba e possa minacciare ritorsioni simili non muta di molto il quadro, Teheran (o domani un'altra capitale mediorientale) potrebbe sempre sperare di impedire la ritorsione con un "primo colpo" ben riuscito.

Per Washington e Tel Aviv, quindi, è necessario rimuovere i governi e le forze politiche arabe ed islamiche nazionaliste o comunque non allineate con il loro comando. Con l'abbattimento di Saddam Hussein e l'occupazione dell'Iraq hanno ottenuto il primo successo, spostando il fronte di Israele ai confini dell'Iran e avviando la costruzione di un regime arabo favorevole ad Israele sulla falsariga di quello giordano e di quello egiziano. Peccato per loro, però che stiano incontrando resistenze ben maggiori di quelle messe in conto prima della guerra. Sembra che financo la Casa Bianca si stia accorgendo del pantano in cui si è cacciata come dimostra la nomina di Condoleeza Rice alla testa dell'organismo per il controllo del protettorato iracheno (l'Irak Stabilization Group) e la sonora bocciatura di Donald Rumsfeld, vera e propria mente della guerra just in time con pochi soldati, niente scorte e con il massimo risparmio.

La seconda base era l'accettazione definitiva da parte della leadership palestinese della prospettiva della chiusura della loro popolazione in bantustan di pochi chilometri quadrati e la presa in carico del problema del disarmo dei gruppi radicali palestinesi poco disposti a subire la sorte preparata per loro da Washigton e Tel Aviv. In pratica Israele e stati Uniti cercavano un Quisling disposto a governare le riserve indiane predisposte per i palestinesi e a far scoppiare una guerra civile per distruggere le organizzazioni palestinesi non allineate. La road map e la nomina di Abu Mazen a Primo Ministro erano gli strumenti per ottenere questi obiettivi. Abu Mazen però si è dimostrato strumento meno docile del previsto e, di fronte alla prospettiva della guerra civile palestinese ha preferito cercare l'accordo con Hamas e Jihad islamica. Questo, naturalmente non è andato giù ad Israele che ha ripreso le provocazioni, come le cosiddette esecuzioni mirate, facendo fallire in partenza qualsiasi trattativa e costringendo alla dimissioni Abu Mazen. Il boccino in campo palestinese è oggi tornato in mano ad Arafat, capitolazionista ma deciso a mantenere la leadership nel proprio campo e quindi non disposto ad accettare di fare il lavoro sporco per Israele, contro il quale Sharon e il governo israeliano stanno scatenando una campagna durissima finalizzata alla sua esecuzione, o comunque al suo allontanamento dalla Palestina.

La terza base del progetto americano-sionista è la collaborazione dei regimi arabi vassalli dell'occidente nei confronti della superpotenza e del suo alleato mediorientale. Questo aiuto non è stato particolarmente spiccato in questi mesi; la famiglia reale saudita è pienamente cosciente di essere seduta sopra un barile di polvere da sparo, la contestazione nei confronti della presenza americana in Medio Oriente e della complicità dei Saud con questa è sempre più diffusa nel paese, non solo a livello popolare, ma anche all'interno del ceto medio occidentalizzato e frustrato, come dimostra la provenienza sociale dei "terroristi" ultimamente arrestati nel paese, senza contare quella dei sauditi coinvolti nell'attentato dell'11 settembre e nell'attività di Al Qaeda. Come se questo non bastasse, parte della stessa famiglia reale simpatizza apertamente con l'attività antiamericana dei partiti islamici armati e non nasconde la sua approvazione per Osama Bin Laden che in fin dei conti appartiene a una famiglia introdotta da cinquant'anni alla corte reale di Riad. Non bisogna dimenticare il ruolo giocato dal servizio segreto saudita nella nascita dei Talebani e che Bin Laden era il delegato reale saudita prima presso i muyaeddin antisovietici poi presso il governo del mullah Omar e degli studenti di teologia afgani. Nell'insieme una rete di complicità costruita negli ultimi vent'anni che oggi imprigiona la famiglia reale saudita stretta tra il necessario sostegno americano che ne impedisce il rovesciamento interno e il crescente sostegno, all'interno della stessa casta al potere, alla crociata antiamericana dei partiti fondamentalisti islamici. In altre parole, i Saud non possono certo augurarsi la sconfitta americana in Iraq che comporterebbe la fine del suo potere, né contribuire al successo del piano di Washington per il Medio Oriente, per evitare il rafforzamento della crescente opposizione interna. Egitto e Giordania non sono in situazioni molto differenti, anche se la maggiore modernizzazione dello stato e un certo livello di democratizzazione interna permettono a questi regimi di ottenere un rapporto migliore con l'opposizione islamista interna. Questo, però, viene pagato dai principi hascemiti e dal presidente Mubarak con una posizione defilata sulle questioni riguardanti la presenza americana nell'area e con l'opposizione non più solo di facciata all'operato del governo Sharon. Il timore per il possibile sovvertimento dei loro paesi da parte dell'élite di questi due paesi si somma con quello relativo alla possibilità che Washington e Tel Aviv possano decidere in futuro di ritenerli troppo poco affidabili per i loro progetti e, quindi, puntare al loro rovesciamento per sostituirli con altri regimi più esplicitamente filooccidentali. Egitto, Giordania ed Arabia Saudita si trovano, quindi, tra la padella e la brace e non stanno rivestendo il ruolo richiesto da Washington e Tel Aviv di retrovia per la guerra imperiale per il controllo del Medio Oriente.

All'interno di questo quadro l'amministrazione USA e quella israeliana hanno chiaramente deciso di alzare il tiro, puntando a ottenere con le ultime mosse tre obiettivi che, se raggiunti, muterebbero in modo definitivo gli equilibri mediorientali a vantaggio degli interessi americani e di quelli israeliani. Il primo di questi è la normalizzazione del regime siriano, con la scomparsa del gruppo dirigente legato ad Assad, la costituzione di un protettorato israelo-americano e la costruzione di un regime sul modello libanese e (oggi) iracheno, balcanizzato tra poteri locali e religiosi i cui terminali si trovano fuori dal paese. Il secondo è la soluzione finale della questione palestinese con l'esecuzione di Arafat come cancellazione simbolica dell'autonomia politica dei palestinesi e l'espulsione di due milioni e mezzo di palestinesi dalla parte di Palestina che verrebbe annessa da Israele verso la Giordania. Questo piano la cui criminalità fa svanire a confronto gli orrori della guerra etnica nella ex Jugoslavia, è inoltre una bomba a tempo posta sotto il regime giordano, visto che questo si regge sulla popolazione beduina che già oggi è minoranza nel paese. È probabile che, in tal caso i regnanti hascemiti puntino a mantenere nei campi profughi i palestinesi espulsi, questa politica, però, non sarà possibile a lungo e porterà probabilmente a un'esplosione del regno giordano. Il terzo obiettivo è quello di mettere nell'angolo il regime iraniano ponendogli il problema se normalizzarsi o essere il futuro oggetto di una guerra israeloameicana nell'area. Le pressioni svolte da Washington anche tramite l'agenzia dell'ONU per il controllo degli armamenti nucleari (l'AIEA) sono chiari segnali inviati alla leadership iraniana perché rinunci ai piani di sviluppo militare e alla pretesa di giocare un ruolo autonomo nell'area. L'attacco in Siria è anche un attacco all'Iran dal momento che questo paese è da vent'anni il principale finanziatore dell'Hezbollah libanese, peraltro l'unico partito islamico a poter vantare una vittoria contro Israele fin dal 1948.

Il calcolo di Washington e Tel Aviv è chiaro. Alzare la tensione con la Siria non escludendo nulla per ottenere un cambio di regime a Damasco, compresa una guerra lampo condotta su due fronti: americani dall'Iraq e israeliani da sud; cancellazione tramite espulsione della questione palestinese, e minacce esplicite all'Iran perché questo paese riconosca Washington e Tel Aviv come potenze dominanti nell'area. Nel caso in cui questo non succeda, arrivare alla guerra anche con Teheran. Peccato che questo piano sia sostanzialmente degno del dottor Stranamore e che la catena di guerre che produrrà necessariamente probabilmente non si arresterà in Medio Oriente, ma coinvolgerà come probabile terreno di operazione anche l'Europa e soprattutto paesi come il nostro che hanno fatto dell'acquiescenza verso Israele e gli Stati Uniti una bandiera. Non è poi del tutto da escludersi che i paesi e le popolazioni arabe interessate dal processo di imposizione del dominio siano disponibili ad accettare la loro sorte senza tentare di reagire pesantemente in modo preventivo contro l'aggressione israeloamericana. Non è, infatti, da escludere che l'Iran sia già in possesso dell'atomica e sia intenzionato ad usarla se si sentisse sotto attacco, né che qualche partito o rete islamica presente sul territorio non arrivi a procurarsi un simile armamento da impiegare in attentati in Israele o nello stesso occidente. Su queste ultime possibilità non sappiamo nulla, anche perché se qualcuno ha informazioni attendibili ha tutto il vantaggio a tenerle secretate. Se così fosse, però, la nuova avventura dell'amministrazione Bush in Medio Oriente e l'espansionismo di quella Sharon, sarebbero l'inizio di una guerra le cui dimensioni e le cui modalità potrebbero essere distruttive per una parte consistente dell'umanità.

Giacomo Catrame





 

 



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