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Da "Umanità Nova" n. 34 del 26 ottobre 2003

La guerra continua
Iraq: sei mesi di occupazione militare


L'occupazione è una cosa grave se prelude alla colonizzazione, se prelude alla liberazione è un fatto positivo.
(Martino, ministro della difesa, Televideo Rai, 13 ottobre 03)

Per cercare di tracciare un bilancio di quasi sei mesi di occupazione militare del territorio iracheno, è utile rifarsi ad una interessante cartina dell'Iraq pubblicata sul n. 38 di Altreconomia dello scorso aprile, una cartina in cui veniva riportata con chiarezza la dislocazione di pozzi e giacimenti petroliferi, oleodotti e raffinerie.
Quando tale cartina fu pubblicata, i redattori della rivista sottolinearono giustamente il coincidere delle linee seguite dall'attacco militare angloamericano con le zone di maggiore importanza dal punto di vista petrolifero; riguardandola oggi appare invece in modo assai evidente che i "vincitori" non hanno ancora raggiunto i propri obiettivi economici fondati sul controllo di quelle zone dove appaiono più forti i movimenti di guerriglia.

Al nord, la ricca regione petrolifera di Mosul col giacimento di Kirkuk è ogni giorno citata per gli scontri che vi avvengono e le autorità stanno mantenendo uno stretto riserbo sulle cifre relative al sabotaggio degli oleodotti, cifre comunque così rilevanti che praticamente le forniture di petrolio alla Turchia sono del tutto pregiudicate.
In conseguenza di ciò Turchia e Stati Uniti avevano concordato un piano, motivato col pretesto di sradicare le basi "terroriste" del Pkk-Kadek dal nord dell'Iraq, che prevedeva l'invio di 10 mila militari turchi in supporto alle truppe statunitensi (Liberazione 3.10.03); ma di fronte al pericolo di sollevazione di tutte le fazioni curde contro una penetrazione militare turca su quello che legittimamente ritengono essere il loro territorio, e dopo aver constatato con l'attentato all'ambasciata di Ankara quanto sarebbe antipopolare e destabilizzante un simile intervento i vertici Usa sembrano orientati a ridimensionare un possibile ruolo della Turchia in Iraq.

Al centro, nell'area di Baghdad ove vi sono giacimenti, pozzi e impianti di raffinazione, le cose vanno anche peggio dato che interi quartieri della capitale - sia sciiti che sunniti - sono interdetti alle forze occupanti e anche in quelli controllati da queste si susseguono gli attentati contro tutte le strutture che ospitano comandi militari, rappresentanze diplomatiche ed economiche, comprese le sedi dell'Onu e della Cia; in tale situazione persino i funzionari della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale hanno deciso di fare le valige (Repubblica 22.8.03).

Al sud, nella ricchissima zona petrolifera di Bassora, gli attentati e gli scontri sembrano meno virulenti, ma la popolazione sciita - nonostante l'odio maturato verso il regime di Saddam Hussein - non ha affatto salutato come "liberatori" i soldati anglo-americani e sono già state diverse le sommosse scoppiate in questi mesi.

In tutto l'Iraq l'ostilità popolare e la resistenza armata si sono a tutti gli effetti rivelate la variabile non calcolata dagli strateghi della più grande potenza militare ed economica planetaria che forse ha vinto la guerra ma sta sicuramente registrando una sconfitta nel dopoguerra: infatti la non - pacificazione dell'Iraq sta impedendo agli Usa di incassare i frutti economici di una guerra costosissima e sta esponendo il governo ad una crescente crisi di consenso a causa delle perdite tra i suoi "ragazzi" che comporta la sua azzardata politica d'aggressione.
Secondo accreditati analisti il budget Usa per le spese militari è ormai ai livelli di quelli delle guerre di Corea e del Vietnam, e per di più in un contesto economico di recessione interna assai più grave.

Da qui il tentativo dell'establishment statunitense di ottenere una copertura dell'Onu per richiedere ai paesi occidentali alleati rinforzi sul piano militare per normalizzare l'Iraq, dato che attualmente oltre alle truppe britanniche i due più numerosi contingenti occidentali in campo sono quelli italiano e polacco con neanche 3 mila soldati ciascuno.
Nonostante la risoluzione Onu votata all'unanimità il 16 ottobre e la prospettiva di qualche succulento contratto petrolifero sottratto al monopolio delle corporation nordamericane, Germania, Francia e Russia non sono disponibili ad una loro - se non simbolica - partecipazione al contingente militare di stabilizzazione sotto bandiera Onu che dovrebbe affiancare e sostituire le forze armate americane; così il governo gli Usa sembra piuttosto intenzionato a convincere stati con minori pretese come l'India, il Pakistan o la Corea del Sud, in grado di inviare decine di migliaia di soldati ben addestrati.
Tra l'altro, gli "alleati" occidentali hanno più volte messo in discussione il fatto che il contingente operante sotto l'egida dell'Onu dovrà prendere ordini dai generali statunitensi; l'unico che "ha aperto alla possibilità di accettare un comando militare Usa in Iraq in nome della priorità rappresentata dalla stabilizzazione del Paese" (il Giornale del 4.9.03) è stato manco a dirlo Berlusconi.
Contemporaneamente il governatore Bremer sta cercando di reclutare altri 70 mila iracheni per cercare di ricostituire sotto controllo Usa le forze armate nazionali che attualmente assommano a 35 mila uomini, impiegati per lo più come poliziotti ausiliari.
Il problema però difficilmente può trovare una soluzione di tipo soltanto militare, almeno finché in Iraq non sarà eletto un governo reale ed indipendente espressione della complessa società irachena, ossia una prospettiva che la Casa Bianca allo stato attuale tende ad escludere e a dilazionare nel tempo per il timore di vedere affermarsi un regime filo-islamico o nazionalista che inevitabilmente reclamerebbe i giacimenti ed i pozzi sottratti dagli occupanti stranieri; le parole di Colin Powell appaiono in questo senso assai eloquenti: " ci vorrà un certo tempo prima che un governo iracheno possa assumere le sue funzioni e dimostrare di essere in grado di svolgerle (…) Non possiamo permettere agli iracheni di fare da soli prima che siano pronti totalmente".
Sul terreno prettamente militare gli Usa non possono vincere questa guerra per svariati motivi, a partire dal fatto che si trovano con forze ridotte a dover controllare un territorio assai vasto e popoloso, con una metropoli quale è Baghdad, e senza neanche una preparazione "culturale" adeguata.
Inoltre, si trovano ad affrontare non un'unica resistenza, ma diversi fenomeni di lotta armata, diverse appartenenze etnico-religiose, diverse insorgenze sociali.
Il panorama della guerriglia appare infatti assai frastagliato e sovente si tratta di azioni spontanee non-coordinate; inoltre, nonostante la propaganda americana, il ruolo dei seguaci legati al passato regime di Saddam Hussein appare estremamente ridotto, anche perché una parte degli organici di polizia e dell'esercito è stata riciclata dagli occupanti. Il ripetersi di attentati suicidi fa invece pensare fondata l'ipotesi secondo la quale in Iraq stanno affluendo combattenti di organizzazioni fondamentaliste islamiche, in considerazione anche del fatto che gli imperialisti stanno violando luoghi che i credenti mussulmani considerano sacri, come ad esempio la città di Mosul.
Sulla stampa sono apparsi numerosi nomi e sigle di organizzazioni che combattono l'occupazione (si vedano gli articoli su Corriere della Sera del 23.6, Repubblica del 20.8, Liberazione del 21.9), ma appare difficile distinguere tra realtà e propaganda, tra disinformazione ed errori di valutazione, come ben sanno gli stessi occupanti: di sicuro c'è soltanto che la vera guerra è iniziata nel momento in cui Bush ha trionfalmente annunciato d'averla vinta.

Uncle Fester






 

 



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