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Da "Umanità Nova" n. 35 del 2 novembre 2003

Fuori l'esercito dalla storia!
Fuori le truppe italiane dall'Iraq, dall'Afganistan, dall'Italia, dalle nostre vite!


L'Italia è in guerra. Uomini provenienti da questo paese, inviati dal governo di questo paese, pagati dalla gente di questo paese sono impegnati in armi in Iraq ed in Afganistan, due paesi dove la guerra preventiva ha portato sangue, distruzione e morte. Due paesi dove la "pace" sta portando sangue, distruzione e morte.

Eppure, alla vigilia di un 4 novembre le cui funebri parate, sin dal 1918, celebrano un feroce massacro, le guerre in corso paiono dimenticate, celate dietro la retorica del "peacekeeping", della missione umanitaria, dell'aiuto alla ricostruzione. Già, la "ricostruzione": dietro questa parola si celebra il lucro di chi prima bombarda e distrugge e poi si spartisce il buon affare con i compari di merende. Siamo al trionfo della neolingua, alla realizzazione dei peggiori incubi orwelliani: la guerra è pace, l'occupazione militare aiuto alla popolazione.

La gente da noi quando parla di dopoguerra si riferisce agli anni successivi al secondo conflitto mondiale inconsapevole che i lunghi anni della Pax Americana sono stati contrassegnati da guerre feroci in ogni angolo del mondo. Quel lontano dopoguerra ha continuato ad essere uno spartiacque anche quando, dopo il crollo dal muro di Berlino, la guerra è scoppiata nel cuore dell'Europa, in Jugoslavia, a due passi da casa nostra. La guerra pare non toccarci. La gente ha continuato a sentirsi in pace persino quando i bombardieri partivano ogni ora per la Serbia, dove seminavano morte e distruzione. Questa pace oggi ha il volto delle truppe italiane passate dalla guerra nei Balcani a quella in Afganistan e poi in Iraq. Si è ormai esaurito il sussulto di coscienza e dignità che aveva riempito le piazze pochi mesi orsono: la stagione pacifista si è conclusa ed i drappi arcobaleno stingono alle finestre. Ma in Afganistan ed in Iraq si continua a morire. Certo oggi tra il Tigri e l'Eufrate si muore con la benedizione dell'ONU e le truppe italiane vengono inviate dal governo di destra e benedette da buona parte della sinistra all'opposizione. La guerra ieri illegittima oggi è divenuta legittima: il male è bene.

Gli antimilitaristi sanno che per avere la pace occorre preparare la pace e non la guerra, sono convinti che la pace degli eserciti non è che una tregua armata in attesa della prossima guerra. La pace degli eserciti è quella dei cimiteri, delle parate militari, della retorica bellica e patriottica, dei tricolori stesi sulle bare. Oggi come nel 1918. Sanno che il pacifismo non è che una scatola ricolma di buoni sentimenti se si disgiunge dalla critica intransigente della più feroce e follemente gerarchica delle istituzioni statuali, l'esercito.

Opporsi alle guerre, a tutte le guerre, significa opporsi all'esercito, a tutti gli eserciti.

La guerra permanente e preventiva non è un fatto nuovo e gli antiautoritari sono sempre, permanentemente, impegnati a prevenire la guerra opponendosi al militarismo, alla gerarchia, alla sopraffazione, allo Stato.

Ma le vittime della violenza legalizzata degli Stati non sono solo in terre lontane, perché la guerra non è mai solo guerra "esterna", rivolta verso un "nemico" che abita altrove, ma è anche guerra "interna" e lì il "nemico" sono tutti coloro che si oppongono ad un ordine ingiusto, tutti coloro che rifiutano la gerarchia e lo sfruttamento, tutti coloro che si oppongono al razzismo, alla società di classe, alla crescita dell'ineguaglianza, alla negazione di ogni forma di libertà.

Continua a crescere la spesa militare a danno di quella sociale: ne sanno qualcosa i malati, gli studenti, i pendolari, i lavoratori cui sono stati tagliati servizi per finanziare l'esercito, il "peacekeeping" in Afganistan e la missione "Antica Babilonia" in Iraq oggi, i bombardamenti della Serbia l'altro ieri. Ne sappiamo qualcosa tutti: ogni giorno subiamo l'erosione progressiva dei già esigui spazi di libertà.
Risorse preziose vengono bruciate sull'altare del militarismo per costruire portaerei, per acquistare armi, per assoldare assassini in divisa. Oggi lo fa il governo di destra, ieri lo faceva quello di sinistra. Lo sappiamo: non ci sono poteri buoni.

La mano che firma il prolungamento della missione di morte delle truppe in Iraq e Afganistan è la stessa che firma il prolungamento della condanna al lavoro salariato per milioni da lavoratori, la mano che firma per la costruzione di nuove armi è la stessa che cancella ogni tutela per i lavoratori dell'amianto.

Oggi opporsi alla guerra significa opporsi ai massacri in ogni angolo del pianeta e, insieme, lottare per una vita migliore nel nostro paese. Guerra esterna e guerra interna hanno lo stesso fronte.
Milioni di uomini e donne hanno gremito le città del mondo per opporsi alla guerra. Milioni di uomini e di donne hanno affollato le stesse piazze per opporsi al peggioramento delle loro condizioni di vita.
Riempire le piazze è importante ma non basta: inceppare la macchina mostruosa del militarismo richiede un impegno quotidiano, un'insubordinazione collettiva che metta sabbia negli ingranaggi bellici. Al fronte militarista occorre opporre un fronte antimilitarista in cui la lotta contro gli eserciti e le guerre si coniughi con quella contro i governi che le promuovono e contro i capitalisti che le sfruttano. Per allontanare la mano armata dello stato dall'Afganistan e dall'Iraq. E dall'Italia. Per buttare gli eserciti fuori dalla storia. Chi vuole la guerra sappia che non ci arruoliamo, che siamo tutti disertori.

Eufelia







 

 



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