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Da "Umanità Nova" n. 35 del 2 novembre 2003

Fotografie
Crepe nel muro dell'indifferenza


Li avevo dimenticate. Avevo dimenticato che quand'ero ragazza si usavano le foto di famiglia eseguite in studio da un fotografo che, a scelta, inseriva un fondale di cartone. Di solito Venezia, Roma, il golfo di Napoli o qualche località di mare. Con il vestito della festa ben stirato ci si metteva in posa, impacciati e rigidi per la foto ricordo. Nelle case della gente si vedevano queste fotografie appese alle pareti o collocate sui mobili del salotto buono o della cucina: giovani e vecchi torinesi ritratti sullo sfondo improbabile di gondole o pini marittimi facevano capolino dal centro di cornici argentate o dorate, solitamente pesanti, barocche, iperdecorate, qualcuna in legno, altre, le più, in qualche plasticaccia che imitava il legno ma, grande vantaggio, teneva assai meglio il pulito. Per me erano l'emblema di un decoro piccino piccino, fatto di apparenze, camicie tirate a colpi di ferro e di amido, trine conservate nella naftalina relegate in fondo all'armadio per esser pronte nelle occasioni "speciali". Fastidiose ma familiari, una sorta di specchio di quel che si era e di quel che si voleva essere.
Oggi queste foto sono divenute più rare, sostituite dai video di famiglia, dalle diapo realizzate durante l'ultima vacanza a Bali o in Tunisia. I vecchi fondali sono stati sostituiti da quelli, altrettanto falsi, di qualche Club Mediterranee ed a poco a poco evapora anche il ricordo di quelle immagini.

Poi capita, come è capitato a me, di aprire la prima pagina de "La Stampa" di martedì scorso e la memoria di quelle foto, di quei fondali, di quel decoro piccino piccino torna a galla. In quella prima pagina facevano capolino le fotografie di famiglia recuperate dopo il trasporto a Lampedusa di una barca dove i pochi superstiti si coprivano con i cadaveri di chi non ce l'aveva fatta. Non si trattava che di uno dei tanti viaggi disperati di un gruppo di somali verso la terra promessa.
Quelle foto in cui comparivano in posa di fronte all'obiettivo coppie di ragazzi, bambini, anziani, tutti con l'abito buono, tirati a lucido; alcuni seri seri, altri spavaldi, altri ancora sorridenti parevano quelle dei miei ricordi. In una si scorgeva un fondale di capanne e palme, in un'altra una casa lussuosa con porticato e piscina e c'era persino un'inverosimile Manhattan a far da sfondo all'immagine di un uomo ed una donna giovani, lei intabarrata in un abito rosso, lui a braccia conserte, camicia bianca ed occhiali scuri.

Quelle foto, così normali, così "familiari" nonostante i volti ed i costumi di terre lontane, sono state come un pugno nello stomaco, come un colpo di frusta che risveglia le coscienze assopite.
Il giorno successivo su "La Stampa" sono state pubblicate decine di lettere di persone che commentavano quelle foto, quelle foto di gente normale. Nulla di simile è accaduto per le immagini tragiche delle cataste di cadaveri, della giovane donna dallo sguardo perso oltre l'orrore trasportata in lettiga lontano dalla barca alla deriva in cui per 15 giorni aveva lottato per la propria vita. Ormai, si dirà, la morte, la sofferenza, l'immagine del dolore non colpiscono più, perché subentra l'abitudine e, con essa, l'indifferenza. Credo vi sia dell'altro, un qualcosa che è difficile da dire ma che è apparso nitido osservando quelle foto, leggendo i commenti pubblicati dal quotidiano torinese.
All'improvviso abbiamo visto quello che avremmo dovuto sapere ma non potevamo o volevamo vedere: su quelle barche cariche di straccioni maleodoranti, dietro quei mucchi di cadaveri senza volto, oltre lo sguardo immoto e stranito dei superstiti di questa feroce guerra tra ricchi e poveri ci sono persone che ci somigliano, persone che un giorno hanno indossato l'abito buono e si sono messe in posa di fronte ad un fondale di cartone. Persone che immaginano la vita che vorrebbero e si portano appresso i loro sogni e ricordi stretti nel fagotto che li accompagna in questo viaggio pericoloso, in questo viaggio che per molti si conclude in fondo al Mare Nostrum.

Un lettore, scrivendo a "La Stampa" giudicava impudiche ed irrispettose quelle foto sbattute in prima pagina, una lettrice sosteneva di aver provato lo stesso disagio che le era occorso dovendo sgomberare la casa di un lontano parente morto. Entrambi erano presi dalla sensazione sgradevole di frugare nell'intimità altrui, di violarne la sfera personale. L'uno e l'altra scoprivano, o, meglio, riconoscevano l'umanità che i mucchi di cadaveri, i feriti, gli sguardi abbacinati finiscono col nascondere. Vedendo quelle foto, diversamente dal quotidiano spettacolo dell'orrore che ci viene servito con dovizia di particolari ogni giorno, ho provato compassione. Nel senso proprio, profondo del termine, che indica un com-patire, un sentire insieme, un far proprio l'altrui strazio, l'altrui dolore.

Troppo spesso l'immagine del dolore diviene abitudine, rito quotidiano da consumare leggendo i quotidiani o guardando la televisione, dimenticando che vi è carne e sangue impastati di sogni, speranze, amore ed odio sulle carrette dei profughi, tra le schiere dolenti dei migranti, perdendo così la capacità di com-patire, di sentire come proprio il destino di altre persone. Diveniamo indifferenti, magari politicamente solidali, ma umanamente indifferenti. Di fronte alla strage di Stato che ogni giorno si consuma sui "nostri" mari, nelle gallerie ferroviarie, nei doppifondi dei Tir l'indifferenza è l'anticamera del razzismo, la cui essenza sta, appunto, nel disconoscimento dell'umanità dell'altro, dell'uomo, della donna, del bambino che pur camminandoci accanto resta un estraneo. Un estraneo il cui destino non ci appartiene, non ci tocca, un estraneo sul quale si può abbattere la furia del mare, la sola talora più clemente di chi ci governa, di chi promulga leggi che condannano a morte gente semplicemente colpevole di esistere.

Dietro i mucchi di cadaveri trasportati dalla corrente ci sono luoghi, case, affetti, sogni, parenti in ansia. Fortuna che di tanto in tanto un mucchio di foto un po' ridicole, un po' tronfie, un po' ingessate ci scuote dall'indifferenza, dandoci un salutare pugno nello stomaco. Ricordandoci che l'indifferenza è complicità.

ma. ma.







 

 



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